Per  contenere  Pechino non serve distribuire patenti di  democrazia

Fabrizio Onida (Sole 24ore, 15 dicembre 2021)

E’ stata largamente inconcludente la mossa di Biden di convocare online per il 9-10 dicembre un virtuale “Summit for democracy”, a 20 anni dallo storico ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto). L’iniziativa della Casa Bianca, che ha invitato 110 governi a discutere temi come difesa dall’autoritarismo, lotta alla corruzione e diritti umani, aveva prevedibilmente sollevato aspre critiche da parte degli esclusi come Russia, Turchia e financo Ungheria (unico membro della Nato e della Ue). Ma ancor più ha sorpreso gli osservatori la selezione arbitraria e talora sorprendente dei 110 invitati, che includevano paesi come Pakistan, Brasile, Ukraina, Filippine oltre all’Egitto del dittatore al-Sisi, 29 paesi che la Freedom House considera “parzialmente liberi” (tra cui Indonesia e Colombia) e 3 paesi che la stessa fonte definisce “non liberi” (Irak, Angola, Repubblica Democratica del Congo). Per quale motivo il Brasile di Bolsonaro era invitato mentre restava esclusa la Turchia di Erdogan (entrambi membri del G-20)?  Peraltro negli ultimi 10 anni si è dimezzata dal 39 al 20 per cento del totale la lista dei paesi che Freedom House considera “pienamente democratici”.

Stephen Walt, professore alla Harvard Kennedy School, si è chiesto, se lo scopo principale è il rafforzamento della democrazia e il contenimento della Cina, che senso ha sedersi accanto a Egitto e Arabia Saudita? Non sarebbe più urgente mostrare quali cose utili al mondo possono fare gli Usa (come oggi promuovere la diffusione mondiale dei vaccini anti-Covid) perché in fondo “non siamo nella posizione migliore per predicare le virtù della democrazia”. Secondo i sondaggi Pew Research solo il 17 per cento dei giovani nel mondo vedono la democrazia americana come un “buon esempio da seguire”, e una ricerca dello Harvard  Institute of Politics trova che solo il 7 per cento dei giovani americani 18-29 anni  ritiene che il proprio paese sia una  democrazia in buona salute. 

Vedremo come si orienterà Biden nel 2022 se confermerà la proposta di organizzare  un secondo Summit, questa volta in presenza. Nel frattempo gli ambasciatori di Russia e Cina hanno scritto a Washington che  l’iniziativa  di Biden suona come prodotto di una “mentalità da guerra  fredda” che alza inutilmente  il tono del confronto ideologico.    Non pochi osservatori indipendenti ritengono che alzare il vessillo della democrazia ideologica finisca a incoraggiare in modo controproducente una maggiore (non minore)  coesione tra paesi oggi deboli autocrazie che si sentono in dovere di rimarcare la propria storia e la propria indipendenza dai poteri forti dell’Occidente.

Si noti come Il clima d’opinione delle imprese multinazionali, che devono decidere dove cercare e mantenere i proprio insediamento per rafforzarsi sui mercati, abbia continuato finora  a privilegiare Cina e Hong Kong in testa fra i top investors nel 2015-2019 (dati Unctad). Al tempo stesso, nell’altra direzione degli investimenti cinesi all’estero, grandi gruppi come Haier negli elettrodomestici e Lenovo nei computer, continuano a penetrare come distributori (e crescentemente come produttori) i mercati europei e americani.

La Cina resterà a lungo un esempio forte di capitalismo di Stato guidato dal partito unico, con un linguaggio ideologico assai distante dalle categorie concettuali consolidate (per fortuna) nella tradizione culturale europea. Da questo punto di vista è istruttiva la lettura del documento “China: Democracy That Works” (4 dicembre) il cui messaggio era stato  anticipato da Xi Jinping lo scorso ottobre in occasione di un incontro di leader del partito con le parole ”La democrazia non è un ornamento decorativo, deve essere usata per risolvere i problemi che il popolo vuole risolvere”.   “L’intero documento del 4 dicembre rivendica il ruolo di leadership del Partito  Comunista  Cinese (Pcc) come garante di una “democrazia sostanziale”, contrapposta alla “democrazia procedurale” di cui sarebbe schiavo l’Occidente. Nato nel 1921 e sfociato dopo i travagli della “Nuova rivoluzione  democratica” (1919-1949) nella fondazione della Repubblica Popolare Cinese   il 1 ottobre 1949, il partito unico realizza la “dittatura democratica del popolo” in grado di governare pacificamente le 56 etnie che  compongono la popolazione cinese di 1,4 miliardi di abitanti. Governare una miriade di etnie diverse per lingua, storia, costumi, religione rappresenta certamente un sfida storica per l’attuale regime cinese, soprattutto se pensiamo alle irrisolte tensioni tribali  che oggi affliggono paesi anche piccoli (si pensi alla Libia ma non solo!) ovunque nel mondo. In un acrobatico alquanto criptico ma sincero passaggio del terzo paragrafo del documento si legge  “In Cina non ci sono partiti di opposizione. Ma il sistema cinese non è un sistema monopartito, né quello in cui molti partiti si contendono il potere per governare a turno. E’ un  sistema di cooperazione multipartito in cui il Pcc esercita il potere dello Stato. Oltre il Pcc ci sono altri 8 partiti politici variamente denominati (…) che  partecipano pienamente all’amministrazione degli affari statali sotto la leadership del Pcc (…) Il Pcc è il partito di governo, gli altri partiti accettano la sua leadership, cooperano strettamente col Pcc e funzionano come advisors and assistants”.

Più chiaro di così…Il documento cinese ripete in modo quasi ossessivo che una “robusta e centralizzata leadership” è necessaria per assicurare un modo di governo basato sul principio “from the people, to the people”. Il Congresso Nazionale del Popolo (Cnp) , organo supremo del potere  dello Stato con i suoi 3000 deputati, assume in sé tutti i poteri (legislativo, amministrativo, giudiziario) anzi che  garantirne la reciproca indipendenza come nella più antica  e nobile tradizione liberale dell’Occidente. Per governare la complessità della popolazione di 1,4 miliardi, il Cnp esercita la propria leadership su una fitta rete di organi periferici, fino ai 503.000 villaggi amministrativi e alle 112.000 comunità urbane che nel 2016 e 2017 hanno eletto 2,48 milioni di rappresentanti.

Il modello cinese vuole essere la “combinazione di democrazia elettorale e democrazia consultiva” in cui  “la consultazione democratica è una peculiarità della democrazia in Cina”.

Su queste basi storiche  e istituzionali, al confronto ideologico fra sistemi è forse preferibile una diplomazia pragmatica che, mentre denuncia la repressione violenta dei dissidenti e le violazioni più eclatanti dei diritti umani, offre molte sponde  per condividere progressi scientifici e tecnologici di fronte alle grandi sfide sanitarie, ambientali e sociali dell’umanità.

fabrizio.onida@unibocconi.it