La politica industriale comune

Fabrizio Onida

Il termine politica industriale non apparteneva al linguaggio dei padri fondatori dell’Unione Europea negli anni Cinquanta. Addirittura, ancora alla fine del secolo scorso, l’allora presidente della Commissione europea Romano Prodi confidava scherzosamente che a Bruxelles l’espressione politica industriale era considerata oscena. Fino agli inizi degli anni Duemila il tema esclusivo restava la ‘politica della concorrenza’, intesa come salvaguardia contro il formarsi di monopoli e l’abuso di potere dominante da parte dei protagonisti del mercato. Come recita l’art. 101  del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE): «Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza sul mercato interno».

Dalla politica della concorrenza alla nuova politica industriale

Un punto di svolta significativo è rappresentato dai documenti della Commissione europea: Una nuova strategia industriale per l’Europa e Aggiornamento della strategia industriale 2020: verso un mercato unico più forte per la ripresa dell’Europa (Commissione europea 2020 e 2021)

A più di un quarto di secolo di distanza dal Rapporto Cecchini (Cecchini 1988) che disegnava il «costo della non-Europa», prosegue il cammino verso il ‘mercato unico europeo’ (single market), definizione preferibile a quella di internal market, troppo evocativa di una ‘fortezza Europa’ che si rinchiude in sé stessa.   

La necessità di una ‘nuova politica industriale’ nasce dalla constatazione che le fondamentali regole antitrust contro i poteri monopolistici e i diritti dei consumatori possono garantire un level playing field agli attori sul mercato, ma non bastano per realizzare l’Europa dei padri fondatori.

Non bastano a far nascere e rafforzare imprese attrezzate per reggere la concorrenza esterna e la competizione tecnologica di colossi non europei nell’industria manifatturiera e nei servizi, particolarmente quando entrano in gioco sul mercato globale soggetti pesantemente sostenuti dallo Stato e sue articolazioni.

Chi ancora oggi diffida del termine politica industriale, citando casi clamorosi di ‘fallimento dei governi’ (come il Concorde in Francia e gli esordi della TV a colori in Giappone) dimentica ciò che è avvenuto in un passato non lontano nel Giappone dei keiretsu («allineamento d’imprese»), e soprattutto trascura la cronaca e la storia dei primi anni Duemila. Una storia disseminata di aiuti pubblici in varie forme (apporti di capitale, prestiti agevolati, garanzie bancarie, sconti fiscali ecc.) a soggetti imprenditoriali che rapidamente si trasformano da campioni nazionali a campioni globali, come peraltro è avvenuto in Cina, Taiwan, Corea del Sud, India, Brasile. Per non parlare degli Stati Uniti e dell’agenda Biden, in un contesto ben diverso da quello in cui, alla fine degli anni Sessanta, John Kenneth Galbraith (1908-2006) parlava del «complesso militare-industriale degli USA» (J.K. Galbraith, The new industrial State, 1967; trad. it. 1968).

Ormai da un ventennio l’‘espressione oscena’ è stata sdoganata, sotto la spinta del mutato quadro internazionale che ha visto un epocale succedersi di eventi: l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) e il suo rapidissimo inseguimento tecnologico e commerciale, gli sconvolgimenti geopolitici a seguito dell’attacco terroristico alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, la crisi bancario-finanziaria del 2008 scatenata dal fallimento della banca americana Lehman Brothers, il sorprendente voto con cui nel 2016 una variegata maggioranza elettorale ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea a quaranta anni dal suo ingresso nel 1975, il riaffacciarsi di guerriglie commerciali USA-UE-Cina con dazi su prodotti di base (acciaio, alluminio) alimentate dall’amministrazione Trump, l’irrompere della pandemia da Covid-19, la violazione unilaterale dei confini tra Russia e Ucraina e la guerra ancora in corso con il coinvolgimento indiretto degli Stati Uniti e di diversi Paesi europei.

In questo nuovo contesto politico-diplomatico va collocato il ripensamento degli organi istituzionali di governo dell’UE (Commissione e Consiglio) e parallelamente il moltiplicarsi di documenti e proposte politiche di fonte nazionale, che sollecitano una lettura aperta e innovativa degli impegni dei Paesi membri in materia di aiuti pubblici allo sviluppo, senza mai dimenticare la centralità della politica della concorrenza.

Verso una maggiore ‘autonomia strategica’ nell’interdipendenza tecnologica globale

Lo scopo è superare ‘nuove vulnerabilità’, ‘antiche dipendenze’, ‘disuguaglianze territoriali’. Un obiettivo-chiave è l’autonomia strategicadell’Europa  dall’importazione di prodotti e attrezzature che – come nel caso dei semiconduttori e dei magneti, componenti cruciali dell’industria degli autoveicoli – vincolano la capacità di risposta delle imprese europee all’evoluzione dei mercati e delle tecnologie. In primo piano vi è ovviamente il tema della sicurezza, con particolare riguardo alla Difesa e ai mutamenti in corso nella geopolitica nonché al ruolo della NATO, ma si guarda al più ampio orizzonte della politica economica estera.  Si punta a un approccio flessibile di politica industriale, finalizzato a coltivare 14 ‘ecosistemi industriali’: dall’agroalimentare e tessile ai mezzi di trasporto terrestri, ai settori manifatturieri ad alta intensità energetica, alla componentistica elettronica, all’aerospazio, ai settori legati alla salute, ai servizi culturali e sociali, al turismo.

Tappa importante è stata lo European Chips Act (febbraio 2022), che con 43 miliardi di euro punta a sostenere attraverso aiuti di Stato le eccellenze attuali e potenziali della filiera microelettronica (fra cui brilla la italo-francese ST Microelectronics con base a Catania e più di 60 insediamenti nel mondo).

Rapidità e flessibilità decisionale nell’allocazione degli aiuti di Stato sono una carta importante che l’Europa può giocare per recuperare il ritardo che vede al suo interno il grande settore delle ICT (Information and Communication Technologies) pesare solo l’1,7% sul PIL, contro il 3,3% negli Stati Uniti e il 2,1% in Cina. Oltre le ICT, occorre guardare a più ampi orizzonti che toccano tecnologie chiave abilitanti in temi come salute, sicurezza civile, difesa, ambiente. Le tecnologie chiave abilitanti includono intelligenza artificiale, realtà virtuale aumentata, IoT (Internet of Things), nano e biotecnologie.

Appositi documenti predisposti dagli uffici della Commissione, in collaborazione con esperti di settori e microsettori, forniscono diverse rassegne in profondità (in-depth reviews) con cui le imprese già operanti e le start-up sono chiamate a confrontarsi: fra i casi già circolati o prossimi all’uscita troviamo batterie, principi attivi farmaceutici, idrogeno, semiconduttori, tecnologie edge e cloud.

Nei rapporti con la Cina il tema dominante, assai più dei dazi, è oggi la guerra (rincorsa, rivalità) tecnologica. Su questo fronte, nel 2019, l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha invocato ragioni di sicurezza militare, bloccando l’esportazione di microprocessori (chip) americani alla multinazionale cinese Huawei e si è spinto a chiedere il blocco, anche per i chip prodotti altrove con macchinario statunitense. I risultati rischiano di non corrispondere alle aspettative, dal momento che diverse grandi imprese tecnologiche statunitensi come Qualcomm, Micron e Skywork riescono a eludere il blocco vendendo i medesimi chip a Paesi terzi che poi rivendono a Huawei. Si stima peraltro che due terzi circa della produzione statunitense di Qualcomm e di Micron sia assorbita dal mercato cinese.

Oltre alle azioni mirate per ridurre vulnerabilità e dipendenza negli ecosistemi industriali, la Commissione sottolinea con forza la necessità di accrescere le capacità produttive anche promuovendo partnership e alleanze internazionali, capaci di coinvolgere imprese di minori dimensioni a vocazione tecnologica. Non è un generico appello alla solidarietà e al ‘fare squadra’, quanto – potremmo dire – l’altra faccia di una realistica politica antitrust.

L’autonomia strategica non confligge certo con l’attrazione di investimenti diretti dall’estero, come il progetto della statunitense Intel di investire 17 miliardi di dollari per localizzare entro il 2027 in Europa (Germania) due megaimpianti destinati alla fabbricazione di microprocessori, prevedendo ulteriori future espansioni in Irlanda.

La Commissione come motore (lento) di progetti intracomunitari di cooperazione

Per essere competitivi occorre essere continuamente esposti al vento della concorrenza (domestica ma sempre più proveniente dalle importazioni), e al tempo stesso bisogna coalizzarsi con altri soggetti indipendenti con cui si condividono complementarità, affinità, volontà e capacità di cambiare.     

Da questo punto di vista ha un senso preciso e innovativo la decisione della Commissione che già  alla fine del 2018 ha lanciato gli IPCEI (Important Projects of Common European Interest). Purtroppo, i tempi di progettazione e di lancio dell’iniziativa sono ancora notevolmente lenti, probabilmente per la difficoltà di armonizzare le vedute di 27 governi nazionali sovrani, ognuno timoroso di approvare scelte che avvantaggino in modo asimmetrico l’apparato produttivo di altri Paesi membri. Il varo degli IPCEI è ancora agli esordi sui primi progetti riguardanti batterie, idrogeno, cybersicurezza, microelettronica. In prospettiva vi sono temi come 5G, energia eolica, edge e cloud per i dati industriali, lanciatori spaziali. I progetti devono di norma coinvolgere almeno quattro Stati membri e prevedere un significativo cofinanziamento da parte delle imprese che riceveranno gli aiuti di Stato.

Come corollario di non secondaria importanza al tema della collaborazione industriale all’interno dell’Unione Europea, vi è il tentativo di promuovere la definizione degli ‘standard tecnici europei’ in asse con la ESO (European Standardisation Organization). Alleanze cross border nella definizione degli standard tecnici consentirebbero di raggiungere economie di scala quando entrano in gioco le commesse pubbliche, che oggi pesano mediamente il 14% del PIL dell’UE, in settori chiave dell’economia come trasporti, rete energetica, telecomunicazioni, elettromeccanica. Tali economie di scala, che certamente impongono il ridisegno di normative e di piani di investimento per il futuro, possono diventare la leva per accrescere sensibilmente la capacità delle imprese europee di partecipare con successo alle gare d’appalto lanciate da un numero crescente di Paesi extraeuropei.

Il tema degli standard tecnici costituiva un capitolo importante nelle analisi degli anni Ottanta sul citato «costo della non-Europa» (Cecchini 1988), anche se i progressi in materia si vedono ancora ben poco. È comunque segnalabile la recente dichiarazione del 19 ottobre 2022 della rete BusinessEurope (che unisce le Confindustrie europee) nella quale si sottolinea l’importanza di accelerare progressi nel campo della fissazione degli standard tecnici europei, nella cornice degli accordi man mano raggiunti a livello internazionale (ISO, International Standards Organization). Per inciso, l’Italia ha sempre avuto storicamente una scarsa partecipazione con propri autorevoli rappresentanti dell’industria nazionale ai diversi livelli di comitati europei su questo tema, a differenza dalla Germania ma anche della Francia e del Regno Unito (preBrexit). In questo campo, nell’ambito dei Paesi europei non membri dell’Unione, gioca un ruolo importante la Svizzera.

Aiuti di Stato e investimenti privati: concentrazioni e concorrenza

Le regole sugli aiuti di Stato devono garantire che i fondi pubblici non sostituiscano gli investimenti privati, ma anzi riescano a sollecitarne di maggiori: come sta avvenendo con il progetto GAIA-X che coinvolge già oggi quasi 300 soggetti nell’UE-27 per far nascere un mercato digitale europeo 5G, che dovrebbe permettere al vecchio continente di affrancarsi dalle piattaforme dei colossi statunitensi e cinesi.

Qualche esponente del pensiero ultraliberale ritiene che ‘basta il mercato’ per realizzare questi grandi progetti di partnership europea, ma non è l’opinione dei diretti protagonisti che ogni giorno sperimentano la pressione della concorrenza statunitense e asiatica. Certo non si tratta solo di ‘politica industriale’ in senso stretto. I governi sono chiamati a dedicare risorse pubbliche per rafforzare le infrastrutture (energia, digitale, telecomunicazioni ecc.), sostenere la ricerca di base e applicata, promuovere l’istruzione tecnica e professionale, agevolare la finanza per lo sviluppo delle imprese.

Nel 2019il divieto posto dalla commissaria alla concorrenza dell’Unione Europea Margrethe Vestager alla progettata fusione franco-tedesca Siemens ferroviaria-Alstom ha risvegliato un dibattito su quale dovrebbe essere una moderna politica per la competitività industriale europea compatibile con la consolidata politica per la concorrenza (antitrust).

Si sono schierati a favore del divieto alla fusione Siemens ferroviaria-Alstom, oltre a (non sorprende) gruppi extracomunitari concorrenti come la canadese Bombardier e la giapponese Hitachi Global Rail, diversi autorevoli commentatori tra cui Guntram B. Wolff (direttore dal 2013 al 2022 del think-tank Bruegel, Brussels European and Global Economic Laboratory e Lucio Caracciolo (direttore di «Limes»). Secondo questi esperti, la commissaria Vestager  aveva ragione nel temere che la fusione dei due maggiori produttori europei di sistemi di segnalamento e di materiale ferroviario rotabile avrebbe creato su quel particolare mercato pericolose condizioni di quasi-monopolio, foriere di prezzi elevati, minori scelte per gli utilizzatori, minori incentivi a innovare. Una effettiva concorrenza del gigante ferroviario cinese CRRC sarebbe ancora lontana nel tempo, mentre limitare la concorrenza intraeuropea renderebbe in definitiva l’Europa più debole, non più forte nella competizione globale.

La stessa Vestager ha respinto l’insinuazione che le regole antitrust vengano interpretate per favorire gli amici e invece applicate rigidamente ai potenti nemici: basti ricordare che in trenta anni di applicazione delle regole UE la Commissione ha approvato più di 6000 accordi e fusioni (per es. Opel-Peugeot) tra gruppi concorrenti e ne ha bloccati meno di 30.  In alternativa a fusioni societarie che indeboliscono la concorrenza, si suggeriscono: a) incentivi fiscali più robusti alla ricerca e sviluppo; b) un minimo coordinamento tra produttori europei nel definire le strategie di esportazione e investimenti all’estero; c) azioni diplomatiche congiunte per superare le barriere all’entrata sul mercato cinese.

Sul fronte dei critici del divieto si sono fin dall’inizio posizionati gli allora ministri dell’industria tedesco (Peter Altmaier) e francese (Bruno Le Maire), firmatari di A Franco-German manifesto for a European industrial policy fit for the 21st century (19 febbraio 2019; https://www.gouvernement.fr/sites/default/files/locale/piece-jointe/2019/02/1043_-_a_franco-german_manifesto_for_a_european_industrial_policy_fit_for_the_21st_century.pdf), a cui si sono uniti le Confindustrie tedesca e francese, nonché personaggi come Romano Prodi, Guy Verhofstadt e la stessa Angela Merkel. Sia pure con toni diversi, tutti costoro auspicano l’emergere di veri campioni europei, capaci di presidiare un mercato globale dove la presenza di giganti statunitensi, e sempre più cinesi (domani indiani e brasiliani?), genera forti barriere all’entrata di concorrenti esterni, anche molto forti nell’innovazione tecnologica ma penalizzati da inferiori dimensioni produttive e commerciali.

Si tenga presente che oggi, tra le 40 più grandi aziende nel mondo, solo 5 sono europee. Ripetute classifiche come Fortune 500 registrano un notevole arretramento della posizione europea rispetto a Nord America e Asia.

Mentre la mancata fusione Siemens-Alstom ha impedito la nascita di un colosso ferroviario da 15 miliardi di euro di fatturato e 62.000 dipendenti, la cinese CRRC con sostanziosi aiuti di Stato fattura sul proprio mercato 26 miliardi e impiega 190.000 dipendenti.

Soprattutto, l’Europa non può non prendere atto del crescente ricorso da parte dei governi non europei a massicci sussidi che distorcono la concorrenza internazionale. Nella letteratura economica si segnala, accanto al rischio classico del protezionismo difensivo (dazi, contingenti quantitativi all’import, clausole doganali vessatorie ecc.), anche quello della ‘guerra dei sussidi’ che comporta spreco di risorse pubbliche, rivalità tra lobby tipicamente in corsa per strappare al governo benefici per ogni singola categoria.

Per una valutazione oggettiva dei costi e benefici di una ‘guerra dei sussidi’ non va comunque trascurata una considerazione di base: mentre una guerra sui dazi porta inevitabilmente a restringere il mercato (domanda) e a penalizzare gli utilizzatori (cittadini consumatori e imprese nazionali produttrici), una guerra sui sussidi genera un aumento dell’offerta complessiva, da cui possono ragionevolmente trarre vantaggio gli utilizzatori tramite riduzione dei prezzi di mercato. E vale l’antico messaggio di Adam Smith (1723-1790) sul fatto che l’ampiezza del mercato (extent of the market) resta una delle condizioni per la crescita del benessere delle nazioni.

L’emergente asse franco-tedesco: nuova geopolitica e ambiguità

Pandemia da Covid-19 e guerra Russia-Ucraina hanno quasi costretto i governi europei a stringere le maglie a difesa degli interessi strategici intesi in un’accezione molto ampia. Commissione, Consiglio e Parlamento europeo giocano di sponda nel richiamare i governi nazionali alla necessità di una ‘autonomia strategica’ che obblighi a rivedere le regole della politica industriale tecnologica e della concorrenza. Un’attenzione crescente alla geopolitica permea dibattiti giornalistici, riletture storiche e analisi scientifiche multidisciplinari, nel tentativo di rispondere a potenti sollecitazioni dell’opinione pubblica per meglio comprendere fenomeni rimasti a lungo fuori della scena quotidiana. Le strade da percorrere per i governi sono segnate da ansie e incertezze, il rischio è di cercare scorciatoie e ingannevole consenso politico. Serve un confronto dialettico aperto e scevro da emozioni.

Con la memoria storica del veto posto dalla Francia al progetto di una politica della Difesa come parte integrante del progetto europeo (1950), fa riflettere l’argomento di Riccardo Perissich (2021) secondo cui il concetto di ‘autonomia strategica’ nasconde ambiguamente una visione francese tipicamente neogollista di autonomia dagli Stati Uniti (altra faccia del Trumpismo) e una ‘sindrome svizzera’ tipicamente economicistica. Quest’ultima visione, fortemente condivisa dalla Germania, mira ad assicurarsi la protezione militare americana al minimo costo, mantenendo il massimo confronto critico con la Cina (incluso lo scivoloso terreno dei ‘valori’), il Giappone, la Corea del Sud e i nuovi protagonisti del continente asiatico. Contro la visione neogollista vale l’osservazione che tutte le recenti sfide di politica internazionale (Afghanistan, Libia, Iran, Sahel, Turchia, Russia ecc.) difficilmente possono prescindere da un’alleanza europea con gli Stati Uniti nella cornice della NATO. L’attuale guerra Russia-Ucraina porta a rafforzare questo legame atlantico, pur lasciando ancora nel vago il disegno di una politica europea della Difesa (Unione o Confederazione? Diritti nazionali di veto? Quale ripartizione degli oneri di finanza pubblica?).

Tra le conseguenze del nuovo scenario vi è un importante aumento delle spese militari tedesche, annunciato dal governo di Olaf Scholz, rompendo in tal modo un tabù che durava dal dopoguerra con la tendenza alla riduzione sia del numero di soldati e armamenti sia delle risorse destinate alla difesa. Per invertire velocemente tale tendenza, con apposita modifica costituzionale, si prospetta un fondo speciale di 100 miliardi di euro con cui modernizzare la Bundeswehr e rispettare in futuro l’obiettivo NATO di una spesa militare del 2% del PIL (rispetto all’attuale spesa di circa l’1,5%).

Per decenni, il modello economico tedesco si è basato su quattro  fattori principali: le importazioni a basso costo di gas russo e materie prime; l’eccellenza nell’ingegneria meccanica a media tecnologia, in particolare la produzione di automobili con motori a combustione interna e macchine utensili complesse; il contenimento degli aumenti dei salari nelle imprese industriali; le elevate esportazioni nel resto del mondo. Dalla riunificazione tedesca in poi, i governi successivi, indipendentemente dal loro colore politico, hanno perseguito lo stesso obiettivo: trasformare la Germania nel più grande esportatore manifatturiero del mondo per valore. Circa un posto di lavoro su quattro attualmente dipende dai settori industriali che lavorano per l’export.

Ciò ha portato a massicci surplus commerciali – che hanno suscitato notevole fastidio nei partner europei – durante quattro distinte fasi successive alla Seconda guerra mondiale:

1) sotto il sistema di Bretton Woods guidato dagli Stati Uniti, caratterizzato da tassi di cambio fissi e crescente accesso al mercato in Europa, Asia e nelle Americhe;

2) dopo il crollo di Bretton Woods, quando il mercato unico europeo si rivelò altamente redditizio per le esportazioni tedesche;

3) in seguito all’introduzione dell’euro e alla crescita dell’export verso le periferie europee;

4) la quarta fase ha visto, dopo la grande recessione del 2008, la Cina diventare un grande mercato per prodotti manifatturieri intermedi, proprio mentre si stava smorzando – a seguito della crisi dell’euro e dell’applicazione delle politiche di austerità – la domanda per i beni tedeschi nell’Europa meridionale.

Non va però ignorato il rischio che una politica industriale europea ormai non più condizionata dalla rincorsa dei ‘campioni nazionali’ possa rilanciare la tentazione dei grandi gruppi di ‘catturare’ i governi per trasformare aiuti di Stato in rendite monopolistiche private, anziché in motori di innovazione e crescita globale.

Lanciando la German 2030 industrial strategy (2019), il ministro Altmaier si è spinto ad affermare che, in presenza di sfide fondamentali per l’economia nazionale, «lo Stato dovrebbe, per un limitato periodo di tempo, essere in grado di acquistare quote proprietarie di società private o fornire aiuti di Stato finalizzati ad agevolare le necessarie fusioni tra imprese». Non è una pericolosa fuga in avanti di un liberale non colbertista, ma piuttosto un segno dei tempi per una aperta discussione non ideologica su come disegnare politiche industriali che incoraggino la dinamica dei vantaggi competitivi nazionali ed europei, guardando oltre la difesa statica della concorrenza tra rivali.

Forti di questo riavvicinamento, Francia e Germania hanno intessuto intense relazioni economiche che hanno portato a importanti investimenti incrociati e alla creazione di posti di lavoro nei due Paesi. Pesa non poco il fatto che ormai 2500 imprese industriali tedesche operino in Francia impiegando 320.000 addetti, mentre reciprocamente la Francia è diventata il secondo partner commerciale a livello europeo, con 3000 imprese francesi insediate in Germania, dove occupano 325.000 addetti.

Un giudizio aperto a una ridefinizione critica dei limiti degli aiuti di Stato emerge anche nell’ultimo Rapporto della Commissione sulla politica della concorrenza (4 aprile 2023): «State aid control is an integral part of EU competition policy and a necessary safeguard to preserve effective competition and free trade in the single market. The Treaty establishes the principle that State aid which distorts or threatens to distort competition is prohibited in so far as it affects trade between Member States (Article 107(1) TFEU). However, State aid, which contributes to well-defined objectives of common interest without unduly distorting competition between undertakings and trade between Member States, may be considered compatible with the internal market (under Article 107(3) TFEU). The objectives of the Commission’s control of State aid are to ensure that aid is growth-enhancing, efficient and effective, and better targeted in times of budgetary constraints, that aid does not restrict competition but addresses market failures for the benefit of society as a whole. In addition to this, the Commission acts to prevent and recover State aid which is incompatible with the internal market».

Dalle politiche per attrarre investimenti diretti esteri  al golden power

Accanto al tema degli aiuti di Stato, negli anni recenti in diversi Paesi industriali (e non solo) si è affacciato quello del cosiddetto golden power (poteri speciali per filtrare e selezionare acquisizioni e/o investimenti greenfield): restando aperto all’ingresso di capitali esteri in un’ottica di globalizzazione che fa crescere occupazione e produttività, lo Stato deve vigilare affinché l’investitore estero non diventi un canale improprio di sfruttamento (anziché coltivazione) di risorse fisiche e umane locali. Più in generale, si cerca di non compromettere gli equilibri concorrenziali nei settori ritenuti ‘sensibili’, perché coinvolti direttamente o indirettamente nella salvaguardia della sicurezza nazionale o dell’ordine pubblico, nel governo delle infrastrutture di rete (energia, trasporti, telecomunicazioni, archivio dati), nel presidio sulle ‘tecnologie chiave abilitanti’ (Onida 2021; Lo Stato promotore, 2021).

I nodi e le strozzature emersi nella gestione della recente pandemia da Covid-19 hanno acuito la sensibilità politica e diplomatica di diversi Paesi, su cui ha particolarmente pesato la dipendenza da forniture importate. È cresciuta ovunque l’attenzione dei governi e dell’opinione pubblica al tema della criticità e vulnerabilità delle catene di fornitura di materiali e servizi in settori chiave come la sanità e l’energia. La Foreign direct investments screening regulation dell’UE (European commission 2019)  prevede che siano gli Stati membri a implementare i meccanismi di sorveglianza e valutazione critica in coordinamento con la Commissione.

Se guardiamo alla pratica implementazione dei poteri di golden power,fino al 31 dicembre 2022 la Commissione ha adottato circa 170 decisioni per approvare altrettante misure nazionali notificate dai 27 Stati membri per aiutare le proprie imprese nel contesto dell’attuale crisi geopolitica legata specialmente alla guerra della Russia contro l’Ucraina. Su un ammontare di 540 miliardi di euro di aiuti di Stato approvati, il 49,3% degli aiuti è stato notificato dalla Germania, il 29,92% dalla Francia, il 4,73% dall’Italia e il restante 16% dagli altri Stati membri. 

Nel corso del 2021, su 1563 casi segnalati dai Paesi membri il 71% è stato fin da subito irrilevante e solo nell’1% è scattato il divieto d’ingresso. Sui 414 casi sottoposti a procedura formale di approvazione da 13 Paesi membri, i 5 principali Paesi d’origine degli investimenti diretti proposti sono stati USA, Regno Unito, Cina, Canada e Isole Cayman.

In anni precedenti, alcuni casi di acquisizioni di controllo estero su importanti soggetti industriali europei hanno sollevato l’attenzione pubblica e stimolato il dibattito su virtù e difetti dei meccanismi di golden power. Uno di questi casi, con ampia eco giornalistica, è stato la sostituzione degli azionisti tedeschi di controllo della Kuka (azienda produttrice di robot ad alta tecnologia, con 20 filiali nel mondo) da parte della cinese Midea (elettrodomestici). Il risultato per ora è stata la conferma di Augusta come centro produttivo e sede del settore ricerca e sviluppo di Kuka, ma non si sono azzerati i timori per il travaso di capacità tecnologica tedesca a un’industria di Stato cinese in un settore come la robotica, strategico per i suoi sviluppi civili e militari.

Un altro caso è stato il fallito tentativo da parte della Hong Kong Genting di acquisire il controllo dei Chantiers de l’Atlantique (ex-STX), specializzati nelle navi da crociera, mentre nello stesso periodo falliva pure l’offerta di controllo da parte dell’italiana Fincantieri. 

La rapida ascesa negli scambi mondiali di colossi industriali e terziari strettamente legati a regimi autocratici ben poco trasparenti (Cina in testa) ha ovviamente accresciuto la preoccupazione che la loro penetrazione nelle pervasive reti di informazione domestica possa alimentare la fuga di tecnologie e di capitale umano.

Il tentativo da parte di Washington di minare le basi espansionistiche di grandi gruppi cinesi di telecomunicazione e informatica come Huawei ha mosso alcuni osservatori indipendenti a mettere in guardia contro il pericolo di una Cina che, sentendosi minacciata dall’Occidente, moltiplichi le proprie mire espansionistiche, rivolte in particolare verso importanti Paesi emergenti tradizionalmente diffidenti verso la pax americana.

Il tema della competitività industriale tocca sempre più quello della sicurezza nazionale ed europea. Una domanda provocatoria: come ci comporteremmo se la Cina l’anno prossimo annettesse Taiwan? (Alfonso Fuggetta in ASTRID 2023).

Durante una sua recente visita romana il premier giapponese Fumio Kishida ha posto il problema di come le democrazie possano respingere la sfida più temibile proveniente dalle autocrazie, esprimendo il convincimento che le democrazie sono destinate a essere ‘perdenti’ perché non più in grado di competere con i successi dei regimi guidati da leader unici come quello cinese.  Qualsiasi opinione si abbia sulla solidità dei recenti rapidissimi successi della Cina nella corsa alle nuove tecnologie abilitanti, il richiamo di Kishida merita un’attenta riflessione e ancora una volta sollecita una riscoperta delle potenzialità di una nuova politica industriale europea.

Vantaggi comparati da scoprire

Prima di concludere questa sommaria carrellata su politica industriale e aiuti di Stato, segnalo l’opportunità di riflettere sulle fondamenta di una ‘teoria della politica industriale’. La letteratura economica consolidata sulle determinanti dei vantaggi comparati dei Paesi – da Adam Smith a David Ricardo, Alfred Marshall, Bertil Ohlin, Paul Samuelson per citare solo alcuni autori di riferimento – poggia sulla nozione esogena di ‘dotazione dei fattori produttivi’ (risorse naturali, lavoro, capitale) la cui produttività dipende dall’impatto altrettanto esogeno del ‘progresso tecnico’. Questo approccio fondamentalmente statico e concettualmente riduttivo viene in verità superato quando si allarga lo sguardo alla teoria dell’innovazione come parte della più generale teoria della crescita quantitativa e dello sviluppo economico, dell’ascesa e declino delle nazioni (David Landes, Paul Kennedy). Nella spiegazione dei vantaggi assoluti e comparati dei Paesi nel commercio internazionale entrano la dinamica degli investimenti (fissi e invisibili), la qualità delle infrastrutture, la formazione del capitale umano, l’imprenditorialità, la ‘distruzione creatrice’ alla Joseph Schumpeter (1883-1950).

Un campo ancora poco esplorato è quello stimolato da un contributo che introduce la nozione di ‘scoperta’ dei vantaggi comparati potenziali del Paese. Una nozione chiaramente assai rilevante sotto il profilo della politica economica che può cambiare il corso della storia, scatenare gli ‘spiriti animali’ keynesiani e ridisegnare la divisione internazionale del lavoro (Hausmann, Rodrik 2003).

Tra i compiti della politica industriale di un Paese o di un gruppo di Paesi, accomunati dalla volontà politica di accrescere il benessere nazionale valorizzando risorse naturali e capitale umano ricevuti dalla storia, vi è certamente quello di promuovere la competitività delle proprie imprese adattando investimenti pubblici e privati alle mutevoli condizioni dei mercati. Accanto ai classici obiettivi macroeconomici di stabilità monetaria-finanziaria e pieno impiego della forza lavoro, la politica economica in economia aperta deve porsi l’obiettivo di favorire il continuo processo di trasformazione del sistema produttivo (per settori, sottosettori, livello tecnologico, fasce di prodotto, regioni e aree geografiche interne). In mancanza di tale trasformazione strutturale, nel gioco delle regole di competizione internazionale più o meno leale, il Paese rischia perdite di quote di mercato (nazionale ed estero) difficilmente recuperabili e un progressivo impoverimento relativo del proprio tenore di vita.

Occorre essere chiari: in un regime di fondamentale democrazia economico-politico-sociale non è certo lo Stato a decidere la specifica allocazione delle risorse tra tecnologie, imprese, settori e gruppi di prodotti-servizi. Il governo dello Stato, sia pure democraticamente eletto, non ha poteri di previsione tecnologica e commerciale che sopravanzano l’intelligenza dei mercati e dei suoi interpreti protagonisti. Di fronte ai progressi scientifici, ai continui cambiamenti tecnologici e ai miliardi di informazioni che circolano nei mercati, nessun potere politico ha facoltà divinatorie e intuizioni profetiche.

Da qui la sfida di una politica industriale che, da un lato, dedica una quota importante del PIL al sostegno pubblico della ricerca scientifico-tecnologica liberamente programmata dalle imprese, dall’altro indica alcune priorità di sviluppo civile e militare a cui subordinare l’allocazione dei fondi elargiti agli enti beneficiari. Esempi di tali priorità non sono l’elenco quantificato di opere e obiettivi di produzione, ma l’indicazione di ‘beni pubblici’ verso cui le imprese sono chiamate a indirizzare i propri investimenti e le proprie energie creative (imprenditoriali e manageriali).

Gli esempi di ‘beni pubblici’ alla cui offerta il mercato è chiamato a concorrere in questa visione moderna della politica industriale ricorrono da tempo nel dibattito pubblico. Basti pensare alle tecnologie di decarbonizzazione per fronteggiare le emergenze climatiche, alla ricerca di nuovi vaccini per le prevedibili future emergenze sanitarie, alle diverse alternative per il riciclaggio dei materiali nella logica dell’economia circolare, agli impieghi dell’intelligenza artificiale per migliorare i processi di apprendimento scolastico e accrescere la produttività degli impianti.

In tal modo le imprese possono affiancare i programmi di investimento già avviati, che rispondono a una precisa logica di mercato, con altri programmi dedicati a esplorare nuovi percorsi di ricerca e sviluppo. Tali programmi possono, dopo un congruo periodo esplorativo, rivelarsi inconcludenti o irrealizzabili. In tal caso la logica della ‘scoperta’ comporta che l’impresa li cancelli o li riconverta per esplorare altre direzioni. Dichiarare il fallimento di un programma così avviato con il sostegno dell’aiuto di Stato non comporta alcun costo reputazionale per l’impresa e nessuno squilibrio incolmabile nei conti aziendali. Anzi, ricordando la massima «Se vuoi avere successo, aumenta il tuo tasso di fallimento» (Thomas Watson, fondatore IBM) quello stesso fallimento può rivelarsi foriero di nuove idee e nuove esplorazioni, proprio in materia di ‘scoperta’ di nuovi vantaggi competitivi dell’impresa nel contesto internazionale.

A differenza delle politiche di distribuzione a pioggia dei tradizionali incentivi alla R&S (ricerca e sviluppo), l’elargizione dell’aiuto di Stato dovrebbe di regola prevedere che una quota significativa sia riservata all’avanzamento di candidature collettive di più aziende, che mettano a fattor comune risorse finanziarie, tecniche e umane tra loro complementari, realizzando economie di scala e di scopo altrimenti non sfruttate.

Una proposta del genere può sembrare politicamente irrealistica, data la tradizione diffusa per cui i governi nazionali misurano l’efficacia delle proprie decisioni di politica industriale in base al grado di soddisfazione delle varie lobby organizzate dai gruppi già presenti sul mercato. Ma un governo illuminato non si fa condizionare dai variabili umori della pubblica opinione, né catturare dai giochi di potere fra partiti e correnti. Un governo illuminato si confronta con l’evidenza storica circa il rapido avvicendarsi di gruppi multinazionali al comando delle classifiche dei maggiori produttori a livello mondiale, riconoscendo che la chiave del successo competitivo, oltre la genialità e l’intraprendenza delle famiglie fondatrici e la competenza-esperienza del management ai vari livelli, sta nella capacità di guardare oltre l’orizzonte del brevissimo periodo, di premiare l’esplorazione di campi non ancora sfruttati, l’assunzione di rischi calcolati, la sfida dell’incertezza. Accanto agli incentivi alla singola azienda e al singolo territorio, vanno disegnate e coltivate reti di imprese, filiere locali e globali di fornitori-clienti, ognuno dotato di indipendenza di giudizio ma anche volontà di cooperare (non solo di competere: “coopetition”, mantenendo antenne vigili sulla continua evoluzione dei mercati di riferimento.

Un dibattito ancora aperto

Gli avvenimenti che hanno segnato l’inizio del 21° sec. (dagli attentati dell’11 settembre all’ingresso della Cina nell’OMC, alla crisi finanziaria del 2008, alla pandemia da Covid-19 e alla guerra in Ucraina) hanno fatto crollare il tabù, assai diffuso su entrambe le sponde dell’Atlantico, che non avesse senso parlare di politica industriale come argomento scientificamente rilevante, oltre gli ortodossi confini della politica antitrust a difesa della concorrenza sui liberi mercati. Prima di allora la politica industriale finiva per essere vista essenzialmente come retaggio dei regimi a economia pianificata o, al più, terreno di confronto con l’attivismo di singoli governi come il Giappone, la Corea del Sud, Singapore, l’India, la Malesia, la Turchia, il Brasile, il Sudafrica. Per il dibattito tra gli economisti si è aperto quasi un vaso di Pandora, con un mix di ideologia, analisi storiche, analisi di settori e casi aziendali, rassegna di interventi pubblici nazionali e locali, esercizi econometrici volti a stimare l’impatto degli incentivi fiscali e finanziari sulle decisioni di investimento delle imprese.

Quasi sempre non si è avuta convergenza di opinioni sui successi e insuccessi delle diverse politiche, ma certamente l’argomento della politica industriale è stato sdoganato e merita una nuova attenzione critica, anche alla luce dei suggerimenti di alcuni economisti sensibili all’ispirazione schumpeteriana della teoria dello sviluppo (come, per es., l’economista Dani Rodrik), da cui discende che il benessere di un Paese non dipende solo dai vantaggi comparati ricevuti dalla Storia, ma anche dalla scoperta attiva dei vantaggi comparati potenziali in un orizzonte di medio periodo.

Commissione e Parlamento si sono impegnati nel formulare diverse analisi e raccomandazioni. Episodi come il divieto della fusione tra Siemens ferroviaria e Alstom hanno lasciato uno strascico di polemiche e alimentato il dibattito circa la necessità di rivedere criticamente le regole restrittive sugli aiuti di Stato. Si è di fatto delineato un asse franco-tedesco dei rispettivi ministri dell’economia, suscitando diffidenze, soprattutto da parte di Paesi UE dell’area centro-nordica, con il convitato di pietra del Regno Unito post-Brexit.

La classica rivalità tra Paesi membri nell’attrarre investimenti diretti da Paesi terzi (USA, Cina, Giappone) si è confusamente mescolata con l’istanza di vigilare e selezionare i medesimi investimenti a salvaguardia della sicurezza e dell’ordine pubblico nazionale e contro il pericolo di dispersione del patrimonio tecnologico accumulato in precedenza (golden power). Su questo tema i governi europei stanno guardando con crescente interesse al modello americano del CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States; Foreign Direct Investment screening, 2019).

Bibliografia

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Foreign direct investment screening – Il controllo sugli investimenti esteri diretti,a cura di G. Napolitano, Bologna 2019.

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Lo Stato promotore. Come cambia l’intervento pubblico nell’economia, a cura di F. Bassanini, G. Napolitano, L. Torchia, Bologna 2021.

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