Politica industriale UE per Treccani 

Fabrizio Onida

Il termine “politica industriale” non apparteneva al linguaggio dei padri fondatori della UE negli anni ’50. Ancora alla fine del secolo scorso l’allora presidente della Commissione Europea Romano Prodi confidava scherzosamente che a Bruxelles la parola “politica industriale” era una parola oscena. Fino agli inizi degli anni 2000 il tema esclusivo restava la “politica della concorrenza”, intesa come salvaguardia  contro il formarsi di monopoli e l’abuso di potere dominante da parte dei protagonisti del mercato. Come recita l’art. 108 del TFUE “Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza sul mercato interno”

Dalla politica della concorrenza alla nuova politica industriale

Un punto di svolta significativo è rappresentato dal documento “Updating the 2020 new industrial strategy: building a stronger Single Market for Europe’s recovery” (5 maggio 2021)  che ha ripreso, come da titolo,  il precedente “A new industrial strategy for Europe” (10 marzo 2020)

A quasi un quarto di secolo di distanza  dal “Rapporto Cecchini”, che nel 1998 disegnava il “costo della non-Europa”, possiamo dire che prosegue il cammino verso il “mercato unico europeo” (Single Market), definizione preferibile  a quella di ”Internal market”, troppo evocativa di una “Fortezza Europa” che si rinchiude in se stessa.

La necessità di una “nuova  politica industriale” nasce  dalla constatazione che le fondamentali regole antitrust contro i poteri monopolistici e i diritti dei consumatori possono  garantire un “level-playing field” agli attori  sul mercato, ma non bastano per realizzare l’Europa dei padri fondatori.

Non bastano a far nascere e rafforzare imprese attrezzate per reggere  la concorrenza esterna e la competizione tecnologica di colossi non europei nell’industria manifatturiera e nei servizi, particolarmente quando entrano in gioco sul mercato globale soggetti pesantemente sostenuti dallo Stato e sue articolazioni.

Chi ancora oggi diffida del termine “politica industriale”, citando casi clamorosi di “fallimento dei governi” (come il Concorde  in Francia e gli esordi della TV a colori in Giappone) dimentica ciò che è avvenuto in un passato non lontano nel Giappone dei keiretsu, e soprattutto trascura la cronaca e  la  storia dei primi anni 2000. Una storia disseminata di aiuti pubblici in  varie forme (apporti di capitale, prestiti agevolati, garanzie bancarie, sconti fiscali ecc.) a soggetti imprenditoriali che rapidamente si trasformano da campioni nazionali a campioni  globali, come peraltro è avvenuto in Cina, Taiwan, Sud  Korea, India, Brasile. Per non parlare degli USA e dell’agenda Biden, in un contesto ben diverso  da quello  in cui  alla fine degli anni ’60 Kenneth Galbraith scriveva sul “complesso militare-industriale degli Usa.

 Ormai da un ventennio la “parola oscena” è stata sdoganata, sotto la spinta del mutato quadro internazionale che ha visto un epocale succedersi di eventi: l’ingresso della Cina nella WTO e il suo rapidissimo inseguimento tecnologico e commerciale, gli sconvolgimenti geopolitici a seguito dello shock delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, la crisi bancaria-finanziaria scatenata dal crollo della Lehman Brs (2008), il sorprendente voto con cui nel 2016 una variegata maggioranza elettorale ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue a 40 anni dal suo ingresso nel 1975, il riaffacciarsi di guerriglie commerciali Usa-Ue-Cina con dazi su prodotti di base (acciaio, alluminio) alimentate dall’amministrazione Trump, l’irrompere della pandemia da Covid-19, la violazione unilaterale dei confini tra Russia e Ukraina e la guerra ancora in corso con il coinvolgimento indiretto degli Usa e diversi paesi europei.

In questo nuovo contesto politico-diplomatico va collocato il ripensamento degli organi istituzionali di governo della Ue (Commissione e Consiglio) e parallelamente il moltiplicarsi di documenti e proposte politiche di fonte nazionale, che sollecitano una lettura aperta e innovativa degli impegni dei paesi membri in materia di aiuti pubblici allo sviluppo, senza mai dimenticare la centralità della politica della concorrenza.

 Verso una maggiore “autonomia strategica” nell’interdipendenza tecnologica globale

Si mira a superare” nuove vulnerabilità”, “antiche dipendenze”, “disuguaglianze territoriali”. Una parola-chiave è la “autonomia strategica” dell’Europa dall’importazione di prodotti e attrezzature che – come nel caso dei semiconduttori e dei magneti componenti cruciali dell’industria degli autoveicoli – vincolano la capacità di risposta delle imprese europee all’evoluzione dei mercati e delle tecnologie. Si punta ad un approccio flessibile di politica industriale, finalizzato a coltivare 14 “ecosistemi industriali”: dall’agro-alimentare e il tessile ai mezzi di trasporto terrestri, ai settori manifatturieri ad alta intensità energetica, alla componentistica elettronica, all’aerospazio e Difesa, ai settori legati alla salute, ai servizi culturali e sociali, al turismo.

Tappa importante è stata lo European Chips Act (febbraio 2022) che con 43 miliardi di euro punta a sostenere con aiuti di Stato campioni attuali e potenziali della filiera microelettronica (fra cui brilla la italo-francese ST Microelectronics con base a Catania e più di 60 insediamenti nel mondo). Autonomia strategica non confligge certo con l’attrazione di investimenti diretti dall’estero, come il progetto dell’americana Intel di investire 17 miliardi di dollari per localizzare entro il 2027 in Europa (Germania) due megaimpianti per la fabbricazione di microprocessori, prevedendo ulteriori future espansioni in Irlanda.

Rapidità e flessibilità decisionale nell’allocazione degli aiuti di Stato sono una carta importante che l’Europa può giocare per recuperare il ritardo che vede in Europa il grande settore delle ICT (Tecnologie dell’Informazione e Telecomunicazione) pesare solo l’1,7 per cento sul Pil, contro il 3,3 per cento negli Usa e il 2,1 per cento in Cina. Oltre le ICT, occorre guardare a più ampi orizzonti che toccano tecnologie chiave abilitanti in temi come salute, sicurezza civile, difesa, ambiente.

 Appositi documenti predisposti dagli uffici della Commissione, in collaborazione con esperti di settori e microsettori, forniscono diverse rassegne in profondità (“in-depth reviews) con cui le imprese già operanti e le “startuppers” sono chiamate a confrontarsi: fra i casi già circolati o prossime all’uscita troviamo batterie, principi attivi farmaceutici, idrogeno, semiconduttori, tecnologie edge e cloud.

Nei rapporti con la Cina il tema dominante, assai più dei dazi, conta oggi la guerra tecnologica. Su questo fronte nel 2019 Trump ha invocato ragioni di sicurezza militare, bloccando l’esportazione di microprocessori (chips) americani alla multinazionale cinese Huawey e si è spinto a chiedere il blocco, anche per i chips prodotti altrove con macchinario statunitense. I risultati rischiano di essere deludenti, dal momento che diverse grandi imprese tecnologiche americane come Qualcomm, Micron e Skywork riescono ad aggirare il blocco vendendo i medesimi chips a paesi terzi che poi rivendono a Huawey. Si stima peraltro che due terzi circa della produzione americana di Qualcomm e di Micron sia assorbita dal mercato cinese.

Oltre alle azioni mirate per ridurre vulnerabilità e dipendenza negli ecosistemi industriali, la Commissione sottolinea  con forza la necessità di accrescere le capacità produttive promuovendo partnerships e alleanze internazionali, capaci di coinvolgere imprese di minori dimensioni a vocazione tecnologica. Non è un generico appello alla solidarietà e al “fare squadra”. Non è nemmeno un ossimoro, bensì – potremmo dire – l’altra faccia di una vera politica antitrust. Per essere competitivi occorre essere continuamente esposti al vento della concorrenza (domestica ma sempre più proveniente dalle importazioni), e al tempo stesso bisogna coalizzarsi con altri soggetti indipendenti con cui si condividono complementarietà, affinità, volontà e capacità di cambiare.     

La Commissione, che già 3 anni fa lanciò gli IPCEI ) (Important Projects of Common European Interest) attualmente agli esordi su tematiche come le batterie e la microelettronica, propone esempi di partnerships che coinvolgono grandi e medi attori (5G, idrogeno, energia eolica, cybersecurity, edge and cloud per i dati industriali, lanciatori spaziali, aeronautica a emissioni zero.

Le alleanze industriali intendono favorire la interoperabilità e promuovere la definizione di standard tecnici europei in asse con la ESO (European Standardisation Organization). Alleanze che devono entrare in gioco ricordando che le commesse pubbliche pesano mediamente il 14 per cento del Pil della UE.

Aiuti di Stato e investimenti privati, concentrazioni e concorrenza

 Le regole sugli aiuti di Stato devono garantire che i fondi pubblici non sostituiscano gli  investimenti privati, anzi riescano a  scatenarne di maggiori:  come sta avvenendo col progetto GAIA-X  che coinvolge già oggi quasi 300 soggetti nella UE-27 per far nascere un mercato digitale europeo 5G che dovrebbe permettere al vecchio continente di affrancarsi dalle piattaforme dei colossi americani e cinesi.

Qualche esponente del pensiero  ultra-liberale ritiene che “basta il mercato” per realizzare questi grandi progetti di partnership europea, ma non è l’opinione dei diretti protagonisti che ogni giorno sperimentano la pressione della concorrenza americana e asiatica. Certo non si tratta solo di “politica industriale” in senso stretto. I governi sono chiamati a dedicare risorse pubbliche per rafforzare le infrastrutture (energia, digitale, telecomunicazioni ecc.), sostenere la ricerca di base e applicata, promuovere l’istruzione tecnica e professionale, agevolare la finanza per la crescita delle imprese.

Il divieto posto dalla Commissaria alla concorrenza UE Margrethe Vestager (erede del “super-commissario” Mario Monti) alla progettata fusione franco-tedesca Siemens ferroviaria-Alstom ha improvvisamente risvegliato un dibattito su quale dovrebbe essere una moderna politica per la competitività industriale europea compatibile con la consolidata politica per la concorrenza (antitrust).

Si sono schierati a favore del divieto, oltre a (non sorprende) gruppi concorrenti extra-comunitari come la canadese Bombardier e la giapponese Hitachi Global Rail, diversi autorevoli commentatori tra cui Guntram B.Wolff (Bruegel), Franco Debenedetti (Istituto Bruno Leoni) e Lucio Caracciolo (Limes). Secondo questi esperti, ha ragione la commissaria Vestager nel temere che la fusione dei due maggiori produttori europei di sistemi di segnalamento e di materiale ferroviario rotabile creerebbe su quel particolare mercato pericolose condizioni di quasi-monopolio, foriere di prezzi elevati, minori scelte per gli utilizzatori, minori incentivi a innovare. Una effettiva concorrenza del gigante ferroviario cinese CRRC sarebbe ancora lontana nel tempo, mentre limitare la concorrenza intra-europea renderebbe in definitiva l’Europa più debole, non più forte nella competizione globale. La stessa Vestager ha respinto l’insinuazione che le regole antitrust vengano interpretate per favorire gli amici e invece applicate rigidamente ai potenti nemici: basti ricordare che in 30 anni di applicazione delle regole UE la Commissione ha approvato più di 6000 accordi e fusioni (es. Opel-Peugeot) tra gruppi concorrenti e ne ha bloccati meno di 30.  In alternativa a fusioni societarie che indeboliscono la concorrenza, si suggeriscono azioni mirate a superare le barriere all’entrata sul mercato cinese, incentivi fiscali più robusti a sostegno degli investimenti in ricerca e sviluppo e (Massimo Motta e Martin Peitz, VOX 20 febbraio 2019) accordi tra produttori europei per coordinare le strategie di esportazione e investimenti all’estero.

Sul fronte dei critici del divieto si sono innanzi tutto posizionati i ministri dell’industria tedesco (Peter Altmaier) e francese (Bruno Le Maire), firmatari del “Franco-German manifesto for a European industrial policy for the 21st century” (19 febbraio 2019), a cui si sono uniti le Confindustrie tedesca e francese, nonché personaggi come Romano Prodi, Guy Verhofstadt e la stessa Merkel. Sia pure con toni diversi, tutti costoro auspicano l’emergere di veri campioni europei, capaci di presidiare un mercato globale dove la presenza di giganti americani e sempre più cinesi (domani indiani e brasiliani?) genera forti barriere all’entrata a concorrenti esterni, anche molto forti nell’innovazione tecnologica ma penalizzati da inferiori dimensioni produttive e commerciali.

Mentre la mancata fusione Siemens-Alstom ha impedito la nascita di un colosso ferroviario da 15 miliardi di euro di fatturato e 62.000 dipendenti, la cinese CRRC con sostanziosi aiuti di Stato fattura sul proprio mercato 26 miliardi e 190.000 dipendenti.

Stiamo dunque assistendo al rinascere di spinte verso una politica industriale europea ormai non più condizionata dalla rincorsa dei “campioni nazionali” e dall’inevitabile inconfessata tentazione dei grandi gruppi di “catturare” i governi delle politiche industriali nazionali per trasformare aiuti di stato in rendite monopolistiche private, anzi che in motori di innovazione e crescita globale (Charles Wyplosz, Telos 4 marzo 2019)?

Lanciando la “German 2030 industrial strategy”, il ministro Altmaier si è spinto ad affermare che, in presenza di sfide fondamentali per l’economia nazionale, “lo Stato dovrebbe, per un limitato periodo di tempo, essere in grado di acquistare quote proprietarie di società private o fornire aiuti di stato finalizzati ad agevolare le necessarie fusioni tra imprese”. Non è una pericolosa fuga in avanti di un liberale non colbertista, ma piuttosto  un segno dei tempi per una aperta discussione non ideologica su come disegnare politiche industriali che incoraggino la dinamica dei vantaggi competitivi nazionali ed europei, guardando oltre la difesa statica della concorrenza tra rivali.

Forti di questo riavvicinamento, Francia e Germania hanno potuto intessere intense relazioni economiche che hanno portato a importanti investimenti incrociati e alla creazione di posti lavoro nei due paesi: 2500 imprese tedesche operano in Francia impiegando 320.000 addetti mentre reciprocamente la Francia è diventata il secondo partner commerciale a livello europeo, con 3000 imprese francesi insediate in Germania, dove occupano 325.000 addetti.

Vantaggi comparati da scoprire

La letteratura economica consolidata sulle determinanti dei vantaggi comparati dei paesi – da Adam Smith a David Ricardo, Alfred Marshall, Bertil Ohlin, Paul Samuelson per citare solo alcuni testi di riferimento – poggia sulla nozione esogena di “dotazione dei fattori produttivi” (risorse naturali, lavoro, capitale) la cui produttività dipende dall’impatto altrettanto esogeno del “progresso tecnico”.  Questo approccio fondamentalmente statico viene poi superato quando si parla di commercio estero nell’ambito della letteratura su crescita e sviluppo economico, in cui entrano la dinamica degli investimenti fissi e invisibili, la qualità del capitale umano, l’imprenditorialità  e la “distruzione creatrice” alla Schumpeter.

Un campo ancora poco esplorato è quello stimolato da un contributo di Dani Rodrik e Robert Hausmann che introduce la nozione di “scoperta” dei vantaggi comparati potenziali del paese. Una nozione chiaramente assai rilevante sotto il profilo della politica economica che può cambiare il corso della storia, scatenare gli “spiriti animali” keynesiani e ridisegnare la divisione internazionale del lavoro.

Tra i compiti della politica industriale di un paese o di un gruppo di paesi, accomunati dalla volontà politica di accrescere il benessere nazionale valorizzando risorse naturali e capitale umano ricevuti dalla storia, vi è certamente quello di promuovere la competitività delle proprie imprese adattando investimenti pubblici e privati alle mutevoli condizioni dei mercati. Compito della politica economica è perseguire, accanto ai classici obiettivi macroeconomici di stabilità monetaria-finanziaria e pieno impiego della forza lavoro, l’obiettivo di favorire il continuo processo di trasformazione del sistema produttivo (per settori, sottosettori, livello tecnologico, fasce di prodotto, regioni e aree geografiche interne). In mancanza di tale trasformazione strutturale, nel gioco delle regole di competizione internazionale più o meno leale, il paese rischia perdite difficilmente recuperabili di quote di mercato (nazionale ed estero) e un progressivo impoverimento relativo del proprio tenore di vita.

In un regime di fondamentale democrazia economico-politico-sociale non è certo lo Stato a decidere la specifica allocazione delle risorse tra tecnologie, imprese, settori e gruppi di prodotti-servizi. Il governo dello Stato, sia pure democraticamente eletto, non ha poteri di previsione tecnologica e commerciale che sopravanzano l’intelligenza dei mercati e dei suoi interpreti protagonisti. Di fronte ai progressi scientifici, ai continui cambiamenti tecnologici e ai miliardi di informazioni che circolano nei mercati, nessun potere politico ha facoltà divinatorie e intuizioni profetiche.

Da qui la sfida di una politica industriale che, da un lato, dedica una quota importante del Pil al sostegno pubblico della ricerca scientifico-tecnologica liberamente programmata dalle imprese, dall’altro indica alcune priorità di sviluppo civile e militare a cui subordinare l’allocazione dei fondi elargiti agli enti beneficiari. Esempi di tali priorità non sono l’elenco quantificato di opere e obiettivi di produzione, ma l’indicazione di “beni pubblici” verso cui le imprese sono chiamate a indirizzare i propri investimenti e le proprie energie creative (imprenditoriali e manageriali).

Gli esempi  di “beni pubblici” alla cui offerta  il mercato è chiamato a concorrere in questa visione moderna della politica industriale ricorrono da tempo nel dibattito pubblico. Basti pensare alle tecnologie di decarbonizzazione per fronteggiare le emergenze climatiche, alla ricerca di nuovi vaccini per le prevedibili future emergenze  sanitarie, alle diverse alternative per il riciclaggio dei materiali nella logica dell’economia circolare, agli impieghi dell’intelligenza artificiale per migliorare i processi di apprendimento scolastico.

 In tal modo le imprese possono affiancare i programmi di investimento già avviati, che rispondono ad una chiara logica di mercato, con altri programmi dedicati a esplorare nuovi percorsi di ricerca e sviluppo. Tali programmi possono, dopo un congruo periodo esplorativo, rivelarsi inconcludenti o irrealizzabili, e di conseguenza l’impresa li cancella o li riconverte per esplorare altre direzioni. Dichiarare il fallimento di un programma così avviato col sostegno dell’aiuto di Stato non comporta alcun costo reputazionale per l’impresa e nessuno squilibrio incolmabile nei conti aziendali. Anzi, ricordando la massima ……“If you want to succeed, raise your failure rate”     (Thomas Watson, fondatore IBM)

…..quello stesso fallimento può rivelarsi foriero di nuove idee e nuove esplorazioni, proprio in materia di “scoperta” di nuovi vantaggi competitivi dell’impresa nel contesto internazionale.

A differenza dalle politiche di distribuzione a pioggia dei tradizionali incentivi alla R&S, l’elargizione dell’aiuto di Stato dovrebbe di regola essere subordinato all’avanzamento di candidature collettive di più aziende, che mettano a fattor comune risorse finanziarie, tecniche e umane tra loro complementari, realizzando economie di scala e di scopo altrimenti non sfruttate.