Il pericolo della tirannia del merito

Fabrizio Onida (Sole 24 Ore, 13 agosto 2023)

Tra le novità dichiarate dal governo italiano di destra-centro vi è la volontà di valorizzare i talenti individuali e la selezione meritocratica della classe dirigente, tanto da avere ridenominato il classico Ministero della Pubblica Istruzione come Ministero dell’Istruzione e del Merito. Al di là del linguaggio di marketing politico, il dibattito sulla meritocrazia affonda radici nei secoli, come documentano diversi volumi scritti da sociologi, filosofi e scienziati della politica: tra questi il sociologo britannico Michael Young (The Rise of Meritocracy, 1958, ed.it. Comunità 1962), più di recente il giornalista di Bloomberg Adrian Wooldridge in una monumentale carrellata storica da Platone e Confucio ai giorni nostri (The Aristocracy of Talent. How Meritocracy Made the Modern World, 2021) e il filosofo di Harvard Michael Sandel nel polemico saggio “La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti”, 2021).

Tentiamo una sintesi tra i pregi e le criticità della meritocrazia.

  1. A favore della meritocrazia.

Pochi dubitano del fatto che sia desiderabile e socialmente benefica una continua selezione scolastica a partire dalla scuola secondaria. Laddove il merito individuale non entra in gioco viene meno l’impegno allo studio e si indebolisce la spinta a progredire lungo le tappe del cosiddetto ascensore sociale. Tale selezione tuttavia dovrebbe essere basata non solo sui voti e le promozioni, ma contemporaneamente su svariati elementi tra loro complementari:  moltiplicazione dei percorsi di apprendimento per allargare la gamma delle scelte individuali e delle motivazioni alla propria crescita umana,  esperienze di socializzazione che promuovano le reciproche conoscenze e il rispetto degli altri ma insieme facciano leva sul gusto di competere, meccanismi premianti anche sotto forma di gioco che stimolino lo sviluppo delle capacità individuali e dell’autostima,  verifiche periodiche dei progressi conoscitivi e dei risultati.   

Se parliamo di filtri burocratici per l’accesso ai vari gradi di istruzione, in una democrazia aperta e trasparente credo vi sia una netta maggioranza di opinioni contraria a diffuse consuetudini, per cui vigono raccomandazioni sotto banco, cultura familistica e di casta, rapporti pregressi tra la famiglia e l’istituzione scolastica (donazioni, tradizioni, vicinanza al potere politico ed economico), in certi territori addirittura tacita connivenza con legami mafiosi.

  • Ma la meritocrazia da sola produce inesorabilmente disuguaglianze sociali ingiuste e dannose per la crescita civile

Quando la meritocrazia degenera in “aristocrazia del talento” (Wooldridge, cit.) viene chiamata in causa la politica nella sua accezione più alta, ispirata al “liberalismo egualitario” propugnato da John Rawls (Teoria della giustizia, 1971). La faccia meno nobile dell’aristocrazia del talento emerge da una massa di evidenza empirica, soprattutto riferita al mondo anglosassone, da cui emerge che la pur notevole mobilità sociale non impedisce il perpetuarsi del fenomeno per cui l’ammissione alle università più prestigiose è fortemente correlata al livello di ricchezza e reddito della famiglia di origine.

 James Conant, dopo 20 anni di presidenza della Harvard University, ai primi anni ’50 confessava che l’87 per cento dei figli degli alumni risultava ammesso proprio ad Harvard. Notando dopo la seconda guerra mondiale la persistenza di una classe superiore americana che dominava studi legali, banche, diplomazia e università, lo stesso Conant aveva varato un sistema di borse di studio basato su un test di quoziente intellettivo usato dall’esercito durante la prima guerra mondiale, test che non privilegiava le materie accademiche ma spaziava su un ampio arco di elementi come linguaggio, scrittura, calcolo (SAP: Scholastic Aptitude Test). Ma i punteggi SAT continuavano a risultare fortemente correlati alla ricchezza della famiglia dei candidati.

Nonostante l’aumento di borse e sussidi finanziari agli studenti meno abbienti, Jerome Karabel (autore di una storia delle politiche di ammissione a Harvard, Yale e Princeton) conclude che figli delle classi lavoratrici e poveri hanno circa stessa probabilità di frequentare le Big Three oggi come nel 1954 (Sabel p. 169).

Ancora oggi più di due terzi degli studenti nelle università della Ivy League provengono dal 20 per cento più ricco della popolazione. Tra i nati da genitori appartenenti al 20 per cento meno ricco nella scala reddituale solo uno su venti salirà al 20 per cento più ricco, mentre la maggior parte non raggiungerà nemmeno la fascia della classe media.

In Europa vi è una minore abbondanza di dati sui processi selettivi di ammissione all’università ma gli studi sociologici suggeriscono una notevole maggiore vischiosità dell’appartenenza individuale alle diverse classi di reddito, in particolare nei paesi dell’Europa meridionale.

Più in generale, la giusta valorizzazione del merito non giustifica affatto l’esplosione delle disuguaglianze che si è verificata nell’ultimo mezzo secolo ovunque nel mondo, come risulta dal World Inequality Database e dalla meticolosa documentazione nei lavori dell’economista Thomas Picketty. Oggi l’1 per cento più ricco degli americani guadagna più della metà più povera del paese e non mancano confronti altrettanto impressionanti di diseguaglianze enormi e ancora crescenti nella quasi totalità dei paesi, avanzati e meno.

Purtroppo l’etica meritocratica tra i vincitori produce tracotanza, tra i perdenti umiliazione e risentimento: sentimenti morali che sono al cuore della rivolta populista contro le élites, come è emerso anche con l’elezione di Trump e con la Brexit.  Allora si può dire che “ingeneroso verso i perdenti e opprimente per i vincitori, il merito diventa un tiranno” (Sabel p. 195).

fabrizio.onida@unibocconi.it