Il prezzo del nuovo antico protezionismo

Fabrizio Onida  (Sole24Ore, 8 ottobre 2023)

Sullo sfondo della “guerra dei chips” (Usa-Taiwan-Cina-Europa) i rapidi cambiamenti negli scenari competitivi nel mercato degli autoveicoli elettrici (EV) hanno riaperto le antiche controversie sui costi-benefici del protezionismo come politica di accompagnamento alla conquista di nuovi vantaggi comparati (dinamici, non più statici), nella competizione internazionale.  Una conquista che deve tener bene in conto la nuova realtà della Cina come gigante economico mondiale.

In vista delle elezioni Usa del 2024, si nota che la linea aggressiva contro la Cina inaugurata  da Trump nel 2016 (dazi sull’acciaio e altro) non è stata sostanzialmente cambiata da Biden, che ha aperto una “guerra dei sussidi” rivolta sia alla Cina che all’Europa sotto il cappello dell’IRA (Inflation Reduction Act). Biden ha messo sul tavolo circa 400 miliardi di dollari di incentivi per produrre EV negli Usa, col requisito del “contenuto locale” dei principali componenti intermedi.

In Europa, particolarmente sulla spinta del governo e del Medef (la Confindustria francese) crescono le pressioni sulla Commissione Ue per varare simili provvedimenti di sostegno alla produzione europea di EV. I costruttori tedeschi della VDA, per i quali il mercato cinese ha un’importanza maggiore rispetto ai costruttori francesi, sono più cauti nell’invocare misure di ritorsione contro i pesanti sussidi che la Cina elargisce ai produttori nazionali (quasi 60 miliardi di dollari tra il 2016 e il 2022).  Anche i produttori britannici si muovono con prudenza per paura di ritorsioni cinesi, mentre tendono a favorire soluzioni cooperative. Accanto a nuovi dazi sulle importazioni di automobili dalla Cina, il governo inglese vede di buon occhio investimenti esteri (es. la tedesca BMW per produrre la Mini elettrica a Oxford anzi che in Cina, o la giapponese Nissan che punta ad aprire una gigafactory in joint venture con la cinese AESC nel nord-est dell’Inghilterra, o l’indiana Tata che ha investito 4 miliardi di sterline in un’altra gigafactory britannica.

Il settore automobilistico è il più importante settore manifatturiero in Europa, particolarmente in  Germania. Tre dei maggiori concorrenti mondiali nel settore sono basati in Europa (VW, Stellantis e Mercedes-Benz) ma il vantaggio competitivo dell’Europa sta rapidamente riducendosi nel settore che guarda al futuro dei veicoli elettrici, in cui la Cina sta arrivando a dominare i mercati avvalendosi di posizioni di vantaggio nelle componenti cruciali come le batterie e i minerali legati alle  terre rare.

Già oggi circa un quinto dei EV venduti in Europa sono fabbricati un Cina. Ma si noti  che il 90 per cento di questi veicoli provengono da marchi cinesi partecipati o in joint venture con capitali europei, come nel caso della SAIC (la britannica MG), della Polestar (Volvo), della Dacia Spring e altri.

La dinamica tecnologica e il rapido mutare degli scenari geopolitici obbligano dunque a rivedere antiche certezze in tema di politica del commercio estero. Le classiche virtù del libero scambio mondiale dei beni e dei capitali come motore di sviluppo e fondamentale generatore di benessere per le popolazioni non vengono radicalmente negate, ma vanno ridimensionate alla luce del fatto che molti regimi autocratici (i quali possono facilmente elargire “aiuti di Stato” alle proprie imprese più o meno controllate dallo stesso Stato) crescono di peso politico ed economico rispetto alle classiche democrazie: un mondo in cui aumentano le disuguaglianze tra paesi e tra le fasce sociali all’interno dei paesi, con  i populismi che si rafforzano elettoralmente anche nei paesi culturalmente avanzati in nome di valori “patriottici.

La politica commerciale è materia complessa, in cui conviene non dimenticare alcune basi teoriche e storico-empiriche, come le seguenti: a) la protezione tramite dazi all’import è preferibile rispetto a quella basata su contingentamenti quantitativi o “restrizioni volontarie all’esportazione” imposte al paese fornitore, perché lascia operare meccanismi di prezzo di mercato anzi che imporre forzature al mercato; b) la rappresaglia altrui contro le nostre misure protezionistiche in un settore (es. acciaio, autoveicoli) colpisce di norma altri settori non correlati per danneggiare le nostre esportazioni (es. moda, alimentari), generando conflitti di interessi tra i nostri produttori nazionali; c) quando un paese concorrente sussidia a carico dello Stato la propria produzione finale in un settore manifatturiero (es. EV), ne può derivare una accresciuta domanda di beni e servizi intermedi che i nostri produttori più competitivi possono sfruttare.

fabrizio.onida@unibocconi.it

Il prezzo del nuovo antico protezionismo

Fabrizio Onida  (Sole24Ore, 8 ottobre 2023)

Sullo sfondo della “guerra dei chips” (Usa-Taiwan-Cina-Europa) i rapidi cambiamenti negli scenari competitivi nel mercato degli autoveicoli elettrici (EV) hanno riaperto le antiche controversie sui costi-benefici del protezionismo come politica di accompagnamento alla conquista di nuovi vantaggi comparati (dinamici, non più statici), nella competizione internazionale.  Una conquista che deve tener bene in conto la nuova realtà della Cina come gigante economico mondiale.

In vista delle elezioni Usa del 2024, si nota che la linea aggressiva contro la Cina inaugurata  da Trump nel 2016 (dazi sull’acciaio e altro) non è stata sostanzialmente cambiata da Biden, che ha aperto una “guerra dei sussidi” rivolta sia alla Cina che all’Europa sotto il cappello dell’IRA (Inflation Reduction Act). Biden ha messo sul tavolo circa 400 miliardi di dollari di incentivi per produrre EV negli Usa, col requisito del “contenuto locale” dei principali componenti intermedi.

In Europa, particolarmente sulla spinta del governo e del Medef (la Confindustria francese) crescono le pressioni sulla Commissione Ue per varare simili provvedimenti di sostegno alla produzione europea di EV. I costruttori tedeschi della VDA, per i quali il mercato cinese ha un’importanza maggiore rispetto ai costruttori francesi, sono più cauti nell’invocare misure di ritorsione contro i pesanti sussidi che la Cina elargisce ai produttori nazionali (quasi 60 miliardi di dollari tra il 2016 e il 2022).  Anche i produttori britannici si muovono con prudenza per paura di ritorsioni cinesi, mentre tendono a favorire soluzioni cooperative. Accanto a nuovi dazi sulle importazioni di automobili dalla Cina, il governo inglese vede di buon occhio investimenti esteri (es. la tedesca BMW per produrre la Mini elettrica a Oxford anzi che in Cina, o la giapponese Nissan che punta ad aprire una gigafactory in joint venture con la cinese AESC nel nord-est dell’Inghilterra, o l’indiana Tata che ha investito 4 miliardi di sterline in un’altra gigafactory britannica.

Il settore automobilistico è il più importante settore manifatturiero in Europa, particolarmente in  Germania. Tre dei maggiori concorrenti mondiali nel settore sono basati in Europa (VW, Stellantis e Mercedes-Benz) ma il vantaggio competitivo dell’Europa sta rapidamente riducendosi nel settore che guarda al futuro dei veicoli elettrici, in cui la Cina sta arrivando a dominare i mercati avvalendosi di posizioni di vantaggio nelle componenti cruciali come le batterie e i minerali legati alle  terre rare.

Già oggi circa un quinto dei EV venduti in Europa sono fabbricati un Cina. Ma si noti  che il 90 per cento di questi veicoli provengono da marchi cinesi partecipati o in joint venture con capitali europei, come nel caso della SAIC (la britannica MG), della Polestar (Volvo), della Dacia Spring e altri.

La dinamica tecnologica e il rapido mutare degli scenari geopolitici obbligano dunque a rivedere antiche certezze in tema di politica del commercio estero. Le classiche virtù del libero scambio mondiale dei beni e dei capitali come motore di sviluppo e fondamentale generatore di benessere per le popolazioni non vengono radicalmente negate, ma vanno ridimensionate alla luce del fatto che molti regimi autocratici (i quali possono facilmente elargire “aiuti di Stato” alle proprie imprese più o meno controllate dallo stesso Stato) crescono di peso politico ed economico rispetto alle classiche democrazie: un mondo in cui aumentano le disuguaglianze tra paesi e tra le fasce sociali all’interno dei paesi, con  i populismi che si rafforzano elettoralmente anche nei paesi culturalmente avanzati in nome di valori “patriottici.

La politica commerciale è materia complessa, in cui conviene non dimenticare alcune basi teoriche e storico-empiriche, come le seguenti: a) la protezione tramite dazi all’import è preferibile rispetto a quella basata su contingentamenti quantitativi o “restrizioni volontarie all’esportazione” imposte al paese fornitore, perché lascia operare meccanismi di prezzo di mercato anzi che imporre forzature al mercato; b) la rappresaglia altrui contro le nostre misure protezionistiche in un settore (es. acciaio, autoveicoli) colpisce di norma altri settori non correlati per danneggiare le nostre esportazioni (es. moda, alimentari), generando conflitti di interessi tra i nostri produttori nazionali; c) quando un paese concorrente sussidia a carico dello Stato la propria produzione finale in un settore manifatturiero (es. EV), ne può derivare una accresciuta domanda di beni e servizi intermedi che i nostri produttori più competitivi possono sfruttare.

fabrizio.onida@unibocconi.it