La sfida delle politiche industriali

Fabrizio Onida (Sole 24Ore, 29 ottobre 2023)

L’America di Biden si prepara alla dura sfida delle elezioni presidenziali del 2024 con un massiccio ricorso agli aiuti di stato (principalmente crediti d’imposta) come strumento di politica industriale. L’accento non è più sui dazi contro le importazioni di acciaio e alluminio da Cina ed Europa (un tormentone inaugurato da Trump che per ora Biden non ha abolito), quanto sul rilancio dell’industria manifatturiera che guarda al futuro in chiave di innovazione tecnologica, digitalizzazione ed “economia verde”. A proposito del tormentone, si stima  che a fronte di ogni posto lavoro protetto nell’industria siderurgica vi siano 18 occupati potenzialmente penalizzati nei settori utilizzatori di acciaio.

 E’ un fatto che negli ultimi 50 anni la quota degli Usa sulla produzione manifatturiera mondiale è calata dal 50% al 12%, a fronte di una sensibile crescita in quantità e valori di mercato dei servizi privati e pubblici. Torna alla mente il volume che un terzo di secolo fa due economisti-politologi americani della  BRIE (Berkeley Roundtable on  International Economics) Stephen Cohen e John Zysman avevano  polemicamente intitolato “Manufacturing matters. The myth of post-industrial economy” (1987). Il volume, allora largamente ignorato dal mainstream della professione degli economisti, sottolineava il ruolo che l’industria manifatturiera moderna svolge nello stimolare gli investimenti in ricerca, facendo crescere la domanda di capitale umano e di servizi a valore aggiunto.

Per il “rinascimento industriale”  Biden punta oggi su 650 miliardi di dollari di sussidi erogati tramite due programmi intitolati  Chips&Science Act e Inflation Reduction Act. Il primo cerca di mantenere il primato tecnologico americano nella miniaturizzazione dei transistors che accresce esponenzialmente la capacità di calcolo e di conservazione dati, il secondo punta a risparmi di energia e di materie prime e alla diffusione di componenti basati sulle biotecnologie e nanotecnologie. Tutto ciò configura una profonda riconversione dei processi e dei prodotti verso una “economia verde” capace di prevenire e/o invertire la drammatica marcia verso l’autodistruzione del globo terrestre.

Non mancano segnali di attenzione di medio-grandi gruppi multinazionali verso l’insediamento di nuovi impianti produttivi negli Usa, attratti dalle favorevoli condizioni fiscali e finanziarie. Ad esempio, il gigante taiwanese nei semiconduttori TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) ha già progettato di insediarsi in Arizona, così come la Robo Fab specializzata in robots umanoidi sta investendo a Salem (Oregon).

Un ingrediente pervasivo di entrambi i programmi da 650 miliardi di dollari è l’automazione flessibile che, con il supporto dell’Intelligenza Artificiale, dello stampaggio digitale (digital printing) e del laser, passa attraverso l’integrazione fra robotica ed energie umane, tema affascinante a cui l’economista di Ginevra Richard Baldwin ha dedicato pochi anni fa il suo libro “Rivoluzione globotica. Globalizzazione, robotica e futuro del lavoro”, Mulino 2020). Nel suo recente intervento sulle prospettive del multilateralismo negli scambi internazionali, il governatore Ignazio Visco non ha mancato di ricordare che in Europa il numero di robot per lavoratore nel settore manifatturiero è raddoppiato negli ultimi 20 anni.

Aggiungiamo che l’Italia è ancora, con Usa Giappone e Germania,  in qualche modo fra i protagonisti mondiali dello sviluppo della automazione industriale, pur con le incertezze legate al futuro di Comau (ex-Fiat oggi confluita nella franco-italo-americana Stellantis). Nel vasto campo della meccatronica si muovono aziende di media dimensione (come  Prima Industrie, Bonfiglioli, Camozzi, Datalogic) con una particolare propensione ai robot collaborativi (cobot) dai molteplici impieghi, dalla fabbrica alla domotica alle strutture sanitarie.

In questo scenario di veloce rincorsa tecnologica e di gara per attrarre investimenti produttivi esteri nei propri confini, impallidiscono molti passati dibattiti sulla politica industriale come politica dei fattori anzi che dei settori. Mentre rinverdiscono le attese che, dopo l’amara esperienza di privatizzazioni non pervenute (Modiano-Onado),  azionariati con partecipazione minoritaria forte  di capitale pubblico (non inquinato dalla politica dei partiti) possano trascinare il mercato dei capitali privati verso la scoperta di vantaggi competitivi nell’arena internazionale. Che poi significa non mortificare ma  valorizzare le straordinarie doti di cultura e capitale umano ancora presenti e latenti nel paese.

fabrizio.onida@unibocconi.it