Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2019
Il tema delle crescenti disuguaglianze mondiali nella distribuzione del reddito e della ricchezza è rapidamente scomparso dall’agenda del recente G7 a Biarritz, ma nei prossimi vertici tra i cosiddetti grandi della terra non tarderà a riaffacciarsi, tanto più se si aggraveranno i timori di una prossima recessione mondiale.
Sappiamo da tempo che la globalizzazione accorcia le distanze di reddito e benessere fra paesi, favorendo l’uscita dalla povertà assoluta e relativa di centinaia di milioni di popolazione nei paesi che ereditano livelli elevati di arretratezza (casi emblematici sono Cina, India e Asia orientale), ma insieme produce distanze crescenti fra redditi e ricchezza delle diverse fasce di popolazione all’interno dei singoli paesi. L’incidenza della povertà estrema sull’intera popolazione mondiale (12% nel 2013) si è ridotta di quasi tre quarti rispetto al 44% del 1990 (in linea con i Millennium Development Goals della Banca Mondiale), ma purtroppo le disuguaglianze interne ai paesi sono tornate vistosamente ad aumentare negli ultimi 30 anni dopo il calo registrato nel secondo dopoguerra. Si vedano i vari indici di distribuzione dei redditi e della ricchezza in quasi tutti i paesi OCSE nei rapporti ufficiali (come OCSE, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale), nonché in lavori di studiosi. Tra questi ultimi, sulla scia del celebre “Equity and efficiency. The big tradeoff” di Arthur Okun (Brookings 1975) – si annoverano autori come Deaton, Bourguignon, Rodrik, Ravaillon, Picketty, oltre agli italiani Alesina, Tabellini, Perotti. Un recente contributo di sintesi è in McKinsey Global Institute, Inequality: a persistent challenge and its implications (June 2019).
Al di là dell’evidenza statistica, vale la constatazione che nel mondo crescenti disuguaglianze nella distribuzione di redditi e ricchezza si accompagnano a deludenti scenari di crescita macroeconomica, diffuso malcontento sociale, impoverimento del tessuto urbano e civile, instabilità politica, pulsioni populiste, fino a ventilare minacce alla tenuta dei valori democratici.
Ma in che senso persistenti disuguaglianze interne al paese – lungi dall’essere il portato temporaneo di un rapido decollo dello sviluppo economico e tecnologico, come descritto nella fase ascendente della cosiddetta “curva di Kuznets” (1955) – agiscono nel tempo come freni allo sviluppo? E perciò quali politiche diventano importanti nei paesi avanzati per rimuovere i freni e rilanciare una crescita sostenibile e inclusiva?
In sintesi, la variabile centrale si chiama “capitale umano”. Contrariamente ad una narrazione popolare, nei paesi a reddito pro capite medio-alto un acuirsi prolungato delle disuguaglianze rappresenta sempre meno la classica molla per chi sta in basso a impegnarsi per conquistare gradini più alti nella scala sociale, ma sempre più provoca diffuse frustrazioni giovanili, agisce da disincentivo a investire nel proprio capitale umano (grado di istruzione, apprendimento, innalzamento dei propri “skills”). Si riduce così la mobilità sociale inter-generazionale, (il cosiddetto “ascensore sociale”), il futuro appare poco attraente, la fiducia nei risultati attesi dai propri sforzi cede terreno rispetto a scelte professionali minimaliste che privilegiano la conservazione del proprio stato rispetto alla scommessa sul domani. A rallentare la crescita concorrono ritardi crescenti nella cultura informatica (“digital divide” tra generazioni, categorie professionali, territori e fasce di reddito) per cui si indebolisce la propensione complessiva a innovare, fonte cruciale di aumento della produttività e quindi del benessere diffuso. L’accesso al credito e alla finanza tende a trascurare i segmenti più poveri della popolazione (IMF, World Economic Outlook, settembre 2007, cap. 4). Studi comparati su diversi paesi trovano che al crescere di indici di diseguaglianza si associano minori tassi di scolarità inferiore e superiore, e prevedibilmente livelli medi inferiori di apprendimento linguistico e numerico. Questi non sono argomenti di facile sociologia, ma implicazioni suggerite da una ampia messe di evidenze econometriche.
Ma allora quali politiche possono correggere questi effetti perversi della disuguaglianza sulla crescita, senza dimenticare che l’uguaglianza nelle opportunità (punti di partenza) è obiettivo più importante delle disuguaglianze storiche?
Innanzi tutto occorrono investimenti massicci non solo in istruzione ma anche (importante!) formazione professionale, insieme a fondamentali beni pubblici come salute e sicurezza. Poi (va da sé) serve un sistema fiscale con esplicite componenti redistributive che non penalizzino l’iniziativa privata. Servono una progressività ragionevole nelle imposte sul reddito (includendovi rendite finanziarie, senza agitare i confusi spettri della “patrimoniale”), una contenuta e progressiva tassazione sul patrimonio immobiliare, imposte di successione sui patrimoni di entità rilevante, prevenendo facili forme di evasione.
Politiche spesso impopolari: ma dobbiamo forse supinamente accettare che, nell’alternarsi dei governi di diverso colore, globalizzazione e progresso tecnologico producano una società insostenibile perché disgregata, conflittuale e mortificante per le aspettative dei giovani sul proprio futuro?
fabrizio.onida@unibocconi.it