Regole efficaci e leggere a tutela della UE

IlSole24Ore, 12 febbraio 2020

Dopo il vigoroso discorso di Boris Johnson all’Old Naval College di Greenwich lo scorso 3 febbraio, forse ha qualche ragione il Wall Street Journal nello scrivere che Brexit ha scatenato una battaglia virtuosa fra  due modi diversi di intendere nel mondo non tanto il  protezionismo, bensì la globalizzazione.

Ecco  alcuni spunti interessanti nel discorso di Greenwich: a) dopo il fallimento del Doha Development Round della WTO seguito dai recenti rigurgiti protezionistici unilaterali (Trump?) occorre un netto impegno a promuovere formule aperte e audaci di “Comprehensive Trade Agreements”, sull’esempio del Canada;

b) è assolutamente necessario recuperare  produttività e competitività nel vecchio continente europeo, ma  senza una socialmente dannosa “corsa verso il basso”: Johnson rivendica anzi una politica in difesa dei diritti dei lavoratori e dei diritti sociali più avanzata della maggioranza dei membri della UE (es. salario minimo più alto);

c) l’impegno del Regno Unito a promuovere uno sviluppo “carbon neutral” entro il 2050 non comporta la minaccia di penalizzare con misure protezionistiche altri paesi che non possono o vogliono adeguarsi ai medesimi standard;

d) nonostante la rigorosa politica UE a difesa della concorrenza, negli aiuti di Stato rapportati al PIL nazionale la Francia spende il doppio e la Germania il triplo del Regno Unito: quindi nel disegnare una politica  industriale europea non nascondiamoci  dietro gli schermi ideologici;

e) anche per correggere i forti squilibri interni fra regioni ricche e regioni periferiche, peraltro non ultima circostanza che ha alimentato la Brexit degli scontenti, il governo di Johnson promette investimenti in infrastrutture per 100 milioni di sterline nei prossimi 5 anni;  

f)  la UE resta comunque un amico e partner storico, con cui allearsi in particolare nella politica per la Difesa, la sicurezza e la cooperazione allo sviluppo.

Al di là di una certa enfasi elettorale, non credo siano solo parole vuote. E la credibilità del premier Johnson sopravanza quella del presidente americano Trump. Tuttavia oggi ancora la maggioranza dei commentatori e degli esperti esterni è convinta che le tremende complessità istituzionali e i connessi tempi lunghi per definire il nuovo assetto giuridico post-Brexit verseranno molte docce fredde sugli ottimistici entusiasmi di Johnson. Forse ad arte  è filtrato giorni fa  un documento del governo di Theresa May che nel 2018, in caso di mancato accordo,  prevedeva uno scenario post-Brexit di caduta del PIL britannico intorno al 5% in 15 anni, con il cancelliere Sajid Javid (origini mussulmane non praticante) costretto dai vincoli di bilancio a programmare minori investimenti in infrastrutture e robusti tagli alla spesa pubblica. 

Uno smaliziato veterano dirigente della Commissione europea come Riccardo Perissich resta scettico sulla “global Britain” e suggerisce agli elettori britannici “quando deciderete di tornare, smettete di credervi eccezionali”.

Da questa parte della Manica forse oggi serve rievocare l’articolata analisi del rapporto Monti a Barroso (9 maggio 2010) “A new strategy for the Single Market”.  Partendo dalla realistica constatazione di un crescente affanno (“integration fatigue”) nel progetto europeo, particolarmente dopo la crisi del 2008, il rapporto suggerisce la ricerca di un equilibrio intermedio fra i “critici radicali” e i “sostenitori accaniti” di una futura Europa politica. Una visione radicata negli irrinunciabili vantaggi per tutti del “Single Market”, lanciato da  Jacques Delors nel 1985, disegnato nel Rapporto Cecchini sul “costo della Non-Europa” (1988) con l’orizzonte 1992, sfociato nel Trattato di Lisbona del gennaio 2010. Con linguaggio di notevole attualità, il par. 1.4 del rapporto Monti parla del progetto di Mercato Interno come “less popular than ever, more  needed than ever”. Il rapporto tocca l’intero spettro delle politiche macro e microeconomiche, incluso il bilanciamento degli inevitabili squilibri regionali, il coordinamento tra paesi membri per evitare una dannosa concorrenza fiscale, la sfida delle infrastrutture trans-europee, la ricerca di una “economia sociale di mercato altamente competitiva”,  la complementarietà fra la difesa  della concorrenza sul mercato interno e l’adozione di una “politica  industriale attiva” che non lasci l’Europa disarmata contro i più agguerriti concorrenti a livello globale. Ma raccomanda che l’intero complesso delle  1521 Direttive  e 976 Regolamenti venga ripensato in nome di “Regulating the single market ‘ma non troppo’”(italiano nel testo originale): un processo di regolazione “”leggera ma  efficace”, evitando l’eccesso di normativa amministrativa e i connessi costi di controllo (compliance), anche ricorrendo al potente principio del “mutuo riconoscimento” tra normative nazionali compatibili.

fabrizio.onida@unibocconi.it