Europa: ritorna la politica industriale?

Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2019

Il divieto posto dalla Commissaria alla concorrenza UE (la tranquilla e assertiva danese Margrethe Vestager, lontana erede del “super-commissario” Mario Monti) alla progettata fusione franco-tedesca Siemens ferroviaria-Alstom ha improvvisamente risvegliato un dibattito su quale dovrebbe essere una moderna politica per la competitività industriale europea compatibile con la consolidata politica per la concorrenza (antitrust).

Si sono schierati a favore del divieto, oltre a (non sorprende) gruppi concorrenti extra-comunitari come la canadese Bombardier e la giapponese Hitachi Global Rail, diversi autorevoli commentatori tra cui Guntram B.Wolff (Bruegel), Franco Debenedetti (Istituto Bruno Leoni) e Lucio Caracciolo (Limes). Secondo questi esperti, ha ragione la commissaria Vestager nel temere che la fusione dei due maggiori produttori europei di sistemi di segnalamento e di materiale ferroviario rotabile creerebbe su quel particolare mercato pericolose condizioni di quasi-monopolio, foriere di prezzi elevati, minori scelte per gli utilizzatori, minori incentivi a innovare. Una effettiva concorrenza del gigante ferroviario cinese CRRC sarebbe ancora lontana nel tempo, mentre limitare la concorrenza intra-europea renderebbe in definitiva l’Europa più debole, non più forte nella competizione globale. La stessa Vestager respinge l’insinuazione che le regole antitrust vengano interpretate per favorire gli amici e invece applicate rigidamente ai potenti nemici: si ricorda che in 30 anni di applicazione delle regole UE la Commissione ha approvato più di 6000 accordi e fusioni (es. Opel-Peugeot) tra gruppi concorrenti e ne ha bloccati meno di 30.  In alternativa a fusioni societarie che indeboliscono la concorrenza, si suggeriscono azioni mirate a superare le barriere all’entrata sul mercato cinese, incentivi fiscali più robusti a sostegno degli investimenti in ricerca e sviluppo e (Massimo Motta e Martin Peitz, VOX 20 febbraio 2019) accordi tra produttori europei per coordinare le strategie di esportazione e investimenti all’estero.

 Sul fronte dei critici del divieto si sono innanzi tutto posizionati i ministri dell’industria tedesco (Peter Altmaier) e francese (Bruno Le Maire), firmatari lo scorso 19 febbraio del “Franco-German manifesto for a European industrial policy for the 21st century”, a cui si sono uniti le Confindustrie tedesca e francese, nonché personaggi come Romano Prodi, Guy Verhofstadt e la stessa Merkel. Sia pure con toni diversi, tutti costoro auspicano l’emergere di veri campioni europei, capaci di presidiare un mercato globale dove la presenza di giganti americani e sempre più cinesi (domani indiani e brasiliani?) genera forti barriere all’entrata a concorrenti esterni, anche molto forti nell’innovazione tecnologica ma penalizzati da inferiori dimensioni produttive e commerciali.

Mentre oggi la mancata fusione Siemens-Alstom impedisce la nascita di un colosso ferroviario da 15 miliardi di euro di fatturato e 62.000 dipendenti, la cinese CRRC con sostanziosi aiuti di Stato fattura sul proprio mercato 26 miliardi e 190.000 dipendenti. E lo stesso Alistair Dormer (CEO di Hitachi Global Rail), sul Financial Times del 21 gennaio si chiede quanto robuste sarebbero le regole della WTO qualora un domani la CRRC decidesse di praticare politiche di dumping sul mercato europeo.

Stiamo dunque assistendo al rinascere di spinte verso una politica industriale europea ormai non più condizionata dalla rincorsa dei “campioni nazionali” e dall’inevitabile inconfessata tentazione dei grandi gruppi di “catturare” i governi delle politiche industriali nazionali per trasformare aiuti di stato in rendite monopolistiche private, anzi che in motori di innovazione e crescita globale (Charles Wyplosz, Telos 4 marzo 2019)?

Lo scorso 5 febbraio, lanciando la “German 2030 industrial strategy”, il ministro Altmaier si è spinto ad affermare che, in presenza di sfide fondamentali per l’economia nazionale, “lo Stato dovrebbe, per un limitato periodo di tempo, essere in grado di acquistare quote proprietarie di società private o fornire aiuti di stato finalizzati ad agevolare le necessarie fusioni tra imprese”. Non credo si tratti di una pericolosa fuga in avanti di un liberale non colbertista, ma piuttosto  un segno dei tempi per una rinnovata aperta discussione non ideologica su come disegnare politiche industriali che incoraggino la dinamica dei vantaggi competitivi nazionali ed europei, guardando oltre la difesa statica della concorrenza tra rivali.

fabrizio.onida@unibocconi.it