Quale risposta della Ue alla nuova politica industriale USA

Fabrizio Onida (Sole24Ore 1 marzo 2023)

Le elezioni presidenziali americane mid-term del 2022, a meno di un anno di distanza dal drammatico inizio della “operazione speciale” di Putin in violazione della sovranità territoriale nel Dombass ukraino,  hanno segnato un forte rilancio di Biden verso un suo secondo mandato nel novembre 2024. Chi si aspettava un Biden come un Trump rivestito da agnello ha dovuto ricredersi di fronte al nuovo corso della politica economica estera statunitense, basata principalmente su 1) massicci sussidi pubblici alla trasformazione digitale (Chips&Science Act con 280 miliardi di dollari), dando ampio sostegno alla ricerca e progettazione dei microcessori ultra-avanzati sul confine dei 2 nanometri con tecniche di litografia ultravioletta estrema; 2) sussidi e crediti fiscali alla trasformazione energetica verso l’energia pulita, sotto il nome di IRA (Inflation Reduction Act) con 369 miliardi di dollari, che include forti sostegni alla produzione e diffusione dei veicoli elettrici, anche prodotti all’estero ma con una significativa percentuale di componenti Made in Usa; nelle parole di Biden si tratta della “azione più aggressiva di sempre … per affrontare la crisi climatica e rafforzare la nostra sicurezza economica ed energetica; 3) stanziamento senza precedenti di 1000 miliardi di dollari per il rinnovo radicale delle infrastrutture di trasporto e urbane, per invertire la tendenza (denunciata nello State of the Union Address dell’8 febbraio) degli Usa a scendere al 13esimo posto nella scala internazionale sulla qualità delle infrastrutture.

Una manovra di politica industriale di respiro internazionale, che riformula come “Build Back Better” l’appello trumpiano all’”America First”. Sul piatto della bilancia, sotto nomi come American Rescue Plan, American Jobs Plan, American Families Plan e altri (che complessivamente stanziano 4200 miliardi di dollari) la manovra punta a creare milioni di posti lavoro, rafforzare i sindacati, alzare a 15 dollari il salario minimo legale, imporre maggiori vincoli per la sicurezza sul lavoro. Il tutto sullo sfondo della lotta al cambiamento climatico.

Distanziandosi dalla palese ostilità di Trump nei confronti della WTO, Biden ha offerto qualche (debole) apertura verso la risoluzione delle annose dispute sui sussidi pubblici a Boeing e Airbus. Ma al tempo stesso non ha esitato a imporre misure di stampo protezionista nell’ambito del multilaterale Global Procurement Agreement, permettendo di discriminare i concorrenti stranieri nelle gare d’appalto statali a livello sub-nazionale. E ha dato voce alla denuncia della US Trade Representative Ambasciatrice Katherin Tai che negli anni recenti troppi posti di lavoro americani sono stati perduti a causa della liberalizzazione commerciale multilaterale.  

Di fronte a questo nuovo corso della politica economica estera di Biden, quanto è efficace la risposta dell’Europa (Paolo Guerrieri, Astrid Rassegna)? Sono leciti alcuni dubbi. Non solo perché – come noto – non esiste un governo federale capace di mobilitare e coordinare rapidamente  le risorse di 27 paesi membri con visioni politiche diverse e poteri decisionali dotati di ampia autonomia.

Occorre capire meglio cosa si declina dietro l’insegna della “autonomia strategica” che la Commissione UE ha fatto propria.  Già a partire dal 2020 la Commissione ha progressivamente tracciato un pacchetto di 750 miliardi di euro (NGEU: Next Generation EU) volto a rafforzare la competitività internazionale delle imprese grandi-medie-piccole, nella logica della doppia sfida (transizione verde e digitale). L’ambizioso piano di riforme (Piano di Ripresa e Resilienza) si articola in 6 missioni (digitalizzazione, sostenibilità, infrastrutture, istruzione, inclusione sociale, salute) entro cui dovrebbe prendere forma anche il disegno di una “politica industriale europea” che  superi la storica interpretazione del Trattato secondo  cui fare politica industriale significa quasi esclusivamente difendere la concorrenza sul mercato interno con poteri di intervento Antitrust, innalzando rigorosi paletti contro l’abuso degli “aiuti di Stato” da parte dei governi nazionali.

Tappa importante è stata lo European Chips Act (febbraio 2022) che con 43 miliardi di euro punta a sostenere con aiuti di Stato campioni attuali e potenziali della filiera microelettronica (fra cui brilla la italo-francese ST Microelectronics con base a Catania e più di 60 insediamenti nel mondo). Autonomia strategica non confligge certo con l’attrazione di investimenti diretti dall’estero, come il progetto dell’americana Intel di investire 17 miliardi di dollari per localizzare entro il 2027 in Europa (Germania) due megaimpianti per la fabbricazione di microprocessori, prevedendo ulteriori future espansioni in Irlanda.

Rapidità e flessibilità decisionale nell’allocazione degli aiuti di Stato sono una carta importante che l’Europa può giocare per recuperare il ritardo che vede in Europa il grande settore delle ICT (Tecnologie dell’Informazione e Telecomunicazione) pesare solo l’1,7 per cento sul Pil, contro il 3,3 per cento negli Usa e il 2,1 per cento in Cina. Oltre le ICT, occorre guardare a più ampi orizzonti che toccano tecnologie chiave abilitanti in temi come salute, sicurezza civile, difesa, ambiente. Su questi fronti la politica industriale europea continua a faticare, come evidenzia la lentezza con cui stanno prendendo corpo quei “progetti importanti di comune interesse europeo” (IPCEI), proposta innovativa che più di tre anni fa è stata formulata nel tentativo di incanalare almeno parte dei diversi aiuti nazionali a Ricerca&Sviluppo a grandi programmi comuni rilevanti, capaci di aggregare energie innovative disperse.   

Per identificare le direzioni in cui andare, sottraendosi alla tentazione di delegare tutto ai governi e alle burocrazie ministeriali dei paesi membri, sarebbe molto utile dotare il Parlamento europeo di una struttura di analisi e proposte simile allo statunitense Congress Research Centre (sezione speciale della Library of Congress) che possa mettere in rete i servizi parlamentari nazionali allo scopo di integrarne le notevoli competenze. Altrettanto utile sarebbe prevedere un esplicito coinvolgimento delle maggiori rappresentanze  imprenditoriali private nazionali, chiamandole a confrontarsi, segnalare, suggerire, criticare in modo costruttivo le proposte che scaturiscono dagli uffici ministeriali. Uffici spesso dotati di competenze tecniche specialistiche, ma  meno adatti per orientare le scelte di investimento delle imprese che rischiano le proprie sorti sul mercato.

fabrizio.onida@unibocconi.it