Globalizzazione e populismi

Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2020

La globalizzazione produce il moltiplicarsi nel mondo di quel particolare virus denominato “populismo”? Da almeno due decenni la risposta a questa domanda sta mobilitando l’attenzione di scienziati della politica, economisti, sociologi, storici, filosofi, psicologi sociali in un concerto interdisciplinare come raramente è accaduto in passato. Un concerto stimolato, per chi ama le verifiche empiriche come gli economisti, dalla crescente disponibilità di dati su sondaggi d’opinione ed esiti elettorali in diverse aree geografiche e in diversi anni.

 Secondo una conclusione largamente condivisa dai vari studi, il giudizio popolare favorevole o contrario alla globalizzazione non è facilmente riconducibile alla classica distinzione fra destra e sinistra, né alla residenza geografica dell’elettore in area rurale piuttosto che urbana (fattore che invece ha pesato non poco sulla vittoria di Trump in America e della Brexit nel Regno Unito). Assai più rilevante è invece, in primo luogo, l’appartenenza dell’elettore alle fasce sociali di chi perde o guadagna di più dall’apertura economica e finanziaria dei mercati. Non è una novità che la globalizzazione produce effetti asimmetrici fra cittadini “vincenti” e “perdenti”, dove i secondi sono essenzialmente lavoratori e imprese messi fuori mercato dalla concorrenza esterna e incapaci (o impossibilitati) a riposizionarsi verso produzioni di volta in volta competitive nel mondo.  

Secondo il politologo studioso dell’estremismo di destra Cas Mudde (The populist zeitgeist, 2004), i movimenti populisti nascono da pulsioni demagogiche-emotive (paura della propria identità messa a rischio) oppure dall’opportunismo (prometto minori tasse per ottenere il consenso). Secondo Ralph Dahrendorf entrambe queste radici riflettono una contrapposizione manichea tra “elites” e “popolo”.

Fra diversi lavori empirici recenti si segnala un contributo econometrico di Zsolt Darvas (Bruegel, 3 febbraio 2020) basato su dati di  preferenze politiche espresse in decine di paesi nel mondo (PEW Global Attitudes) e nell’Eurobarometro a 27 paesi 2013-2019. I giudizi negativi sulla globalizzazione dei mercati e sui flussi immigratori in Europa crescono al peggiorare del mercato del lavoro nel paese (alto tasso medio di disoccupazione), ma insieme al variare di caratteristiche individuali dell’elettore come: età più avanzata, minor grado di istruzione, minore accesso a Internet, appartenenza a classe sociale medio-bassa, aspettativa più pessimistica sulla situazione economica del paese, minor fiducia nei meccanismi di funzionamento della UE.

Conclusioni convergenti emergono da studi di Italo Colantone e Piero Stanig (Bocconi) che mostrano come il sensibile scivolamento dell’elettorato europeo nel trentennio 1985-2015 verso proposte politiche di stampo nazionalistico-sovranista-isolazionista (fino all’emergere di partiti di destra radicale) sembra riflettere da vicino: a) il tasso di penetrazione delle importazioni dalla Cina (il cosiddetto “China shock”); b) la quota degli occupati più vulnerabili al rischio di robotizzazione e automazione dei processi; c) la percezione di pericolo dall’invasione degli  immigrati.

Un acuto anticipatore del dibattito sulla globalizzazione come Dani Rodrik (Harvard School of Government) in un suo recente articolo su globalizzazione e populismi (Populism and economics of globalization, Journal of International Business Policy, febbraio 2018) ripropone il ruolo di destra e sinistra: diverse varianti del populismo sono associate a diverse propensioni politiche prevalentemente di destra (negli USA e in Europa) o invece di sinistra (in America Latina). Il populismo di destra negli USA e in Europa, critico della globalizzazione, è alimentato soprattutto dalla (errata) percezione che lo spiazzamento dei posti lavoro nei paesi avanzati dipenda essenzialmente dalla accresciuta concorrenza dei paesi emergenti (Messico, Cina e paesi asiatici) più che – come comprovato –  dalle nuove tecnologie digitali che rivoluzionano i processi manifatturieri e ancor più i servizi. Il populismo in America Latina è meno legato alle tendenze del commercio internazionale e affonda invece le sue antiche radici nel timore assai diffuso dello strapotere delle grandi multinazionali che si assicurano l’approvvigionamento delle materie prime agricole e minerarie di cui hanno bisogno, a cui si aggiunge lo strapotere del Fondo Monetario Internazionale nel dettare le regole della disciplina macroeconomica (Washington Consensus).

Ci auguriamo che la risposta degli elettori europei disillusi dalle democrazie liberali non spiani la strada verso forme nuove di “democrazia illiberale” (Fareed Zakaria, giornalista, PhD  di Harvard) Democrazia senza libertà, 2003).

fabrizio.onida@unibocconi.it