La guerra fredda commerciale e le illusioni dei falchi occidentali

Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2020

Non basta la guerra globale in corso contro la pandemia con lo spettro degli imminenti 90.000 morti da covid-19 negli Usa a frenare le pulsioni di Trump e di parte dell’elettorato repubblicano statunitense verso scenari da guerra fredda dell’Occidente contro la Cina comunista. Una Cina ormai da tempo proiettata all’inseguimento di un nuovo ruolo di potenza tecnologica, simboleggiato tra l’altro dai successi di Huawei nella sfida del 5G, e accusata (ancora senza prove certe) di avere colpevolmente nascosto i primi segnali di una fuga accidentale dal laboratorio biologico sperimentale di Wuhan.

La guerra dei dazi, iniziata due anni fa da Trump per ridurre le importazioni americane di acciaio e alluminio con pretestuose motivazioni di difesa della sicurezza nazionale, ha subìto lungo i mesi una forte accelerazione con mosse e contromosse che negli Usa hanno generato più danni che benefici alle chances di Trump per una rielezione a novembre. I grandi importatori-rivenditori americani di beni di consumo (a partire da Gap, Macy’s, Penney) lamentano forti cadute degli affari. La strategia protezionistica degli Usa si è rapidamente dimostrata inefficace, dal momento che la produzione domestica  di beni sostitutivi delle minori importazioni dalla Cina di beni tradizionali lungo gli anni è quasi scomparsa dal mercato, mentre le immancabili ritorsioni cinesi colpiscono le imprese americane esportatrici (non solo nelle grandi aree cerealicole del Midwest). Qualche recente segnale di distensione fra il negoziatore Usa Robert Lighthizer e il vice-premier cinese Liu He non basta a  controbilanciare gli allarmi per la drammatica  recessione globale da Covid-19.

Al tempo stesso non si è fermata la corsa cinese verso la conquista di ambiziosi traguardi di  progresso scientifico e padronanza tecnologica nei campi più avanzati come intelligenza artificiale, semiconduttori, 5G, quantum computing,  biotecnologie, aerospazio e diversi altri ancora. Oggi, con più di 230 miliardi di dollari di spesa nazionale in ricerca e sviluppo (20 per cento della spesa mondiale), la Cina è prima al mondo per numero di pubblicazioni scientifiche, numero di brevetti, numero di laureati in scienze e ingegneria.

Il grande programma in corso Made in China 2025 prevede che entro tempi ravvicinati l’industria domestica dei semiconduttori (al cuore delle nuove tecnologie) arrivi a coprire la quasi totalità della domanda interna, pur con una forte specializzazione entro catene del valore molto ramificate tra produttori localizzati nei cinque continenti.  Le produzioni cinesi, come quelle di Taiwan che progetta un investimento di  $12 miliardi per produrre chips negli Usa, sono sempre più intrecciate con forniture di hardware  e software in un ampio arco geografico che va  dall’Asia meridionale (Malesia, India, Pakistan) all’Asia orientale (Tailandia, Vietnam, Filippine, Singapore, Giappone): un’area  crescentemente dotata di infrastrutture che interconnettono investitori americani, europei e asiatici, continuamente alla ricerca di un assetto ottimale sotto il profilo dei costi e della logistica, anche per governare l’impatto di eventi dirompenti come covid-19, che impongono frequenti rilocalizzazioni dei fornitori. L’improvvido ritiro di Trump nel 2017, all’inizio del suo mandato presidenziale, dal neonato progetto del TPP (Trans Pacific Partnership) ha aperto una prateria all’ambizione di Xi Jinping di configurare la Cina come perno di 22 paesi (inclusi Giappone, Australia e Nuova Zelanda) dell’area tecnologica e commerciale più dinamica del secolo.   

In una prospettiva storica sbagliano i falchi dell’Occidente, secondo cui una guerra fredda e una politica di severo contenimento della potenza industriale e militare cinese potrebbe forzare in Cina un “cambio di regime” verso la democrazia, come avvenne più di 30 anni fa con l’URSS. La maggioranza dei paesi alleati degli USA non crede che la Cina oggi minacci seriamente l’ordine liberale internazionale, dopo la lunga maratona di avvicinamento alla cultura di mercato (purtroppo non ancora alla cultura dei diritti umani e politici) compiuta da Deng Xiaoping e successori a partire dalle riforme del 1979, dopo gli anni di Mao e delle guardie rosse. E solo 3 su 61 paesi alleati sono oggi disponibili a boicottare Huawei, come segnala il giornalista indiano naturalizzato statunitense Fareed Zakaria su Foreign Affairs di gennaio-febbraio 2020.

La diplomazia cinese della BRI (Belt and Road Initiative, cosiddetta via della seta)  tocca 60 paesi che pesano più del 60 percento della popolazione, tre quarti delle risorse energetiche e un terzo del PIL del mondo. La politica assertiva e lungimirante di Xi Jinping  sta tessendo una fitta rete di alleanze con paesi ricchi e poveri non allineati nel mondo. Circa 370.000 studenti cinesi negli USA e oltre 5 milioni di cittadini e residenti USA di origine cinese (Taiwan inclusa) indicano che le élites cinesi puntano oggi a integrarsi, non certo a distruggere il mondo.

E l’Europa? La rivalità tecnologica fra USA e Cina è spesso raffigurata come un “lotta fra titani”, ma proprio per questo in molti paesi del mondo più e meno sviluppato si teme l’egemonia del più forte. Con la sua storia straordinaria  di ricomposizione politica dopo l’immane tragedia della seconda guerra mondiale, senza cedere a ingenue utopie, l’Europa può forse inserirsi come modello di integrazione pacifica fra popoli liberi e indipendenti, capaci di costruire reti interdipendenti e inclusive di cittadini e di imprese. Va accolto l’appello di Wilbur Ross, Alto Rappresentante UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza (La Repubblica, 16 maggio) per una UE “più realistica e  assertiva” nel cooperare con la Cina, in particolare in campo sanitario ed energetico.

fabrizio.onida@unibocconi.it