Non è il momento di allentare le sanzioni contro Mosca (anzi…)

Fabrizio Onida (Sole24Ore, 27 settembre 2022)

Le ultime mosse di Putin (tra cui chiamata di 300.000 riservisti e minaccia di uso di armi nucleari tattiche) ripropongono in un clima politico sempre più teso la nota domanda: sono efficaci, e su quali tempi, le sanzioni dell’Occidente (Europa in particolare) contro la Russia, una potenza che dal 24 febbraio ha letteralmente invaso il vicino di casa col delirante obiettivo di “de-nazificare” la popolazione ukraina e annettere l’intero Donbass, invocando antiche appartenenze etniche e storiche?

Stando ai dati della cronaca quotidiana, secondo cui la ipocrita “operazione militare speciale” si è rapidamente trasformata in guerra feroce, appare scontato che le sanzioni sono state finora un’arma impotente per fermare il conflitto armato, anzi lo hanno esacerbato. Ricordiamo che, secondo una ,consolidata letteratura economica e politologica, efficacemente ripresa dal molto citato Nicholas Mulder nel recentissimo volume pubblicato dalla Yale University Press, le sanzioni sono un’arma civile per condurre una “guerra moderna” che induce il paese avversario a rinunciare/modificare la propria strategia, limitando al massimo le inevitabili ripercussioni negative sul paese sanzionatore.

 Guardando alla storia, le aspre sanzioni contro Germania e Giappone dopo la prima guerra mondiale non hanno impedito l’esplodere della seconda guerra mondiale, anzi hanno indotto i due paesi sanzionati ad accelerare la conquista di una propria autosufficienza e potenza militare aggressiva. Al contrario è tuttavia innegabile che le sanzioni occidentali contro il Sud Africa dell’apartheid, fino alla liberazione di Nelson Mandela nel 1990, hanno raggiunto lo scopo, certamente dopo decenni di repressioni e sofferenze terminate solo quando massicci popolari interni di protesta hanno accelerato il cambio di regime.

Purtroppo la protesta popolare oggi in Russia è (ancora?) alquanto debole e il regime sa (per ora?) come usare la mano forte per reprimerla. Quanto alla ristretta ma potente corte degli oligarchi che detengono all’estero larga parte della ricchezza finanziaria privata accumulata dopo la caduta del muro di Berlino, oggi soffrono terribilmente il congelamento dei propri conti in valuta, sperano in un negoziato tra Russia e Occidente che porti ad allentare le sanzioni, ma non sembrano inclini a trasformarsi in efficaci cospiratori di una rivoluzione interna anti-Putin.

Dobbiamo dunque rassegnarci a un conflitto di lunga durata che porta solo ad accrescere orrendamente il numero delle vittime (da entrambe le parti) e continuare la distruzione di infrastrutture-abitazioni-fabbriche-campagne da cui dipendono l’economia e la vita civile di una nazione popolosa e fiera nel cuore dell’Europa?

No, pur in un contesto confuso e allarmante (con lo spettro del nucleare chirurgico-tattico) le ultime settimane sembrano dare segnali che “il re è nudo”. L’attuale referendum-farsa del 23-27 settembre rimarrà senza alcun effetto giuridico e politico perché privo di ogni credibilità anche agli occhi di osservatori “amici” (Cina e India in primis). Il richiamo dei 300.000 riservisti, non addestrati e scarsamente dotati di armi sofisticate, che forse Putin farà finta di impiegare sul territorio risparmiando loro almeno inizialmente il macello sul fronte, si rivelerà impotente a invertire le sorti del conflitto militare.

Ha probabilmente ragione The Economist quando nel numero del 17 settembre tratteggia una sconfitta dell’esercito di Putin “non ancora certa ma di cui si discerne già il sentiero”, chiedendo all’Occidente di accelerarne il percorso. Lo stesso pensa il politologo americano Ian Bremmer intervistato dal Corriere del 23 settembre.

Accanto alla crescita degli aiuti militari americani ed europei, che si stanno rivelando assai efficaci per le sorti sul campo, serve probabilmente rafforzare due leve economiche di pressione che sono in mano all’Occidente: 1) con buona pace dell’Ungheria,  alzare il livello delle sanzioni finanziarie che isolano crescentemente banche e intermediari finanziari russi, minacciando le loro controparti, anche fuori da Usa e Ue, di ostacolarle seriamente se continuano a fare affari con la Russia amica di Putin; 2) stretta sorveglianza sulle imprese occidentali che possono legalmente rifiutarsi di fornire pezzi di ricambio-componenti-macchinari di cui la Russia ha assoluto bisogno per far funzionare quotidianamente gli apparati civili e militari, ma non è in grado di produrre in autarchia. Esempi di questo mosse sono già venuti da gruppi europei e americani come  Renault-Boeing-Airbus che stanno creando seri problemi di produzione e manutenzione a grandi imprese  come Avtovaz (la più grande fabbrica russa produttrice di auto) e le aerolinee russe che dipendono dai pezzi di ricambio europei e americani. 

Non vi sono certezze anzi ci sono rischi, con un despota che continua a delirare (Lavrov) che “l’Ukraina sta diventando uno Stato totalitario nazista”, ma vale la pena di scommettere. Anche con sacrifici per le ripercussioni energetiche sulle nostre case, rispondendo alla domanda di Draghi “Volete la pace o i condizionatori d’aria”?

fabrizio.onida@unibocconi.it