La leadership di Draghi e le sfide di una politica europea sull’immigrazione

Fabrizio Onida (Sole 24Ore 6 luglio 2021)

La leadership europea di Draghi si va  delineando attraverso i vari incontri bilaterali e multilaterali previsti nel fitto calendario delle istituzioni comunitarie. L’emergenza migranti nel Mediterraneo, ancora sotto traccia nelle ultime settimane ma con forti rischi di implosione nel favorevole clima estivo, potrebbe essere  occasione per un ulteriore consolidamento di tale leadership, anche se mettendo a dura prova la capacità di Draghi di sciogliere un vero e proprio nodo gordiano. La posta in gioco include sia il fragilissimo quadro di stabilità politica in Libia e nella retrostante grande regione dell’Africa sub-sahariana, principale origine dei flussi di esseri umani che cercano in tutti i modi di raggiungere la sponda settentrionale del Mediterraneo, sia il lontano obiettivo di un accordo pan-europeo sulla redistribuzione di profughi e migranti economici tra i 27 membri della UE.   

Non perdiamo comunque di vista alcuni dati che, contrariamente ad alcune tendenziose rappresentazioni mediatiche, non vedono l’Italia sovraesposta rispetto agli altri paesi europei quanto ad assorbimento dei flussi migratori. Secondo i dati ufficiali dell’Agenzia internazionale per i rifugiati UNHCR (riportati da LaVoce.info del 29 giugno), nel 2019 l’Italia accoglieva 3,4 tra rifugiati e richiedenti asilo ogni 1000 abitanti, contro 25 della Svezia, 15 dell’ Austria, 14 della Germania, 6 di Francia-Danimarca-Grecia. E in un’intervista a Tonia Mastrobuoni di Repubblica del 21 giugno il ministro degli esteri tedesco Heiko Maas  ricordava che Germania e Francia ospitano il 70 per cento dei cosiddetti “Dublinanti” che (in base al Regolamento di Dublino III del 2013 oggi sospeso dalla crisi migratoria del 2015) dovrebbero essere rimandati al paese di primo approdo. Annotiamo per inciso che in Turchia, beneficiaria di 6 miliardi di euro di aiuti specifici  dalla UE, vivono quasi  4 milioni  di profughi dalla Siria e altre regioni  del Medio Oriente. Come segnalava  Marco Minniti (Il Foglio del 31 maggio), per la prima volta un singolo paese (Turchia) controlla le maggiori rotte migratorie del Mediterraneo-Balcani.

Vanno  tenuti distinti i due temi del diritto d’asilo e dell’immigrazione clandestina.

 Il diritto d’asilo non è esplicitamente sancito dalla convenzione di Ginevra del 1951, né dalla “Convenzione  europea sui diritti dell’uomo”, ma gli articoli 18 e 53 della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”  (proclamata nel dicembre 2000 a Nizza da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione ed emendata dagli stessi il 12 dicembre 2007 a Strasburgo) garantiscono il diritto d’asilo “nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione d Ginevra e a norma del TFUE”. Va ricordato che tale Convenzione  è sovraordinata rispetto alla normativa secondaria dei Regolamenti e delle Direttive della UE. Non basta: l’art. 78 del TFUE ribadisce  che “L’Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e  di protezione  temporanea, volta ad offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che  necessita di protezione  internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento” (non refoulement) . Perché queste solenni  affermazioni non suonino oggi parole vuote occorre un rilancio di iniziativa comune, inevitabilmente guidata dai tre maggiori paesi membri (Germania, Francia, Italia). Non è velleitario immaginare che  Draghi possa oggi giocare un ruolo di federatore e abile mediatore di questa testa di ponte di un’Europa con una visione inclusiva, pragmatica, non ideologica.

Più spinoso è il tema della immigrazione clandestina, che periodicamente ripropone in vasta scala i drammi della popolazione disperata e ricattata dai trafficanti in esseri umani. Anche se siamo ancora alle prime battute, nella conferenza stampa a conclusione dell’ultimo vertice europeo Draghi non si è limitato a condannare e rigettare la strumentalizzazione dei migranti per ragioni politiche, ma ha lanciato la palla verso il nodo di fondo: espandere e controllare le maglie della immigrazione legale, quella che ha accompagnato tante pagine positive della storia contemporanea.  Ha promesso che la Commissione presenterà qualche proposta in autunno, ribadendo che il nodo delle  migrazioni resterà a lungo nell’agenda UE, e ricordando per inciso che l’Italia ha bisogno dell’Europa ma vale anche il reciproco.

Sul tema della immigrazione legale, tanto impopolare quanto di drammatica attualità, Draghi può lanciare il cuore oltre l’ostacolo e sfidare gli euroscettici che si nascondono anche nei corridoi del potere parlamentare e governativo. Potrebbe raccogliere tra l’altro la proposta recente di Macron di dedicare un vertice speciale europeo sull’Africa (una qualche comune formazione gesuitica dei due leader funge da  catalizzatore?).

Un lungimirante programma per soppiantare almeno parte dei flussi illegali con una calibrata  immigrazione legale concordata a livello continentale richiede uno sforzo di fantasia e di reputazione politica. Serve raccogliere dati e proposte circa stime di fabbisogno dei singoli paesi membri in termini di mercato del lavoro, servono idee per un dibattito aperto sui filtri di merito come sicurezza, fasce  d’età, condizioni familiari, formule di welfare e simili. Vanno rapidamente disegnati e allestiti nei paesi d’origine corridoi umanitari capaci di svuotare i centri migranti, troppo spesso denunciati come focolai di violenze e di illegalità.

Da ultimo, un confronto aperto su spazi e modalità di immigrazione regolare (legale) contribuirebbe a rilanciare un tema purtroppo tendenzialmente  trascurato nei vertici politici: l’efficacia della politica di aiuti pubblici e privati allo sviluppo dei paesi poveri. Al di là delle emergenze climatiche, sanitarie e alimentari, su cui tende a esaurirsi l’attenzione mediatica umanitaria nei paesi  ricchi donatori, lo slogan “aiutiamoli a casa  loro” dovrebbe essere la base di partenza per chiedersi a quali condizioni gli aiuti ricevuti dall’esterno in nome della solidarietà mondiale si traducono in moltiplicatori di attività economica sostenibile e diffusa. Il vero antidoto alla massiccia emigrazione illegale da questi paesi apparentemente condannati alla permanente arretratezza è fatto di creazione di nuovi posti lavoro a condizioni di mercato non predatorio, di incentivi a investimenti che penetrino gradualmente gli enormi territori sottoutilizzati al di là delle attività estrattive (le quali, come noto, producono rendite di poche minoranze e aggravano le storiche disuguaglianze sociali), di imprenditorialità diffusa che mobilita e valorizza le risorse umane disoccupate. In tal modo la solidarietà internazionale può accendere motori di sviluppo locale che non solo migliorano i bilanci delle famiglie (tra l’altro paradossalmente favorendo maggiori fughe emigratorie a costi che prima non erano sostenibili, come suggeriscono diversi studi empirici), ma creano maggiori opportunità di lavoro e speranze nel futuro nel paese d’origine.

fabrizio.onida@unibocconi.it